IL MASO RAUTI

Il primo indizio sul proprietario dei terreni nella zona del futuro maso, ci viene da un documento del 1662, nel quale, fra i confinanti di un arativo e vignato a Campolongo, appare il nobile Giovanni Concini di Taio.[1] Invece, il primo accenno diretto ai terreni del maso, lo troviamo in un documento del 1670, riguardante la divisione dei beni fra i due fratelli Lorenzo e Giovanni Romedio Concini di Taio, figli, probabilmente, del nobile Giovanni. In questo atto infatti, l'esteso terreno ai Rauti, giacente in parte nelle pertinenze di Coredo e in parte in quelle di Dermulo, fu suddiviso con l'assistenza dei fratelli Giovanni e Bartolomeo Bertoldi in due porzioni. La prima, che confinava con i beni comunali di Dermulo, con Tommaso Massenza di Dermulo e con altre persone di Taio e Coredo, fu assegnata a Giovanni Romedio; mentre la seconda, confinante con privati di Coredo e con la località ai Piani, fu assegnata a Lorenzo. Nel 1674 Lorenzo investiva della sua parte, Bernardo Chilovi di Taio. Nel documento di divisione non si fa accenno alla presenza di una casa, e quindi troverebbe riscontro la notizia riportata da don Edoardo Endrici nel libro "Coredo nell'Anaunia". L'autore infatti, afferma che don Luca Stefano Ferrari, parroco di Coredo, il giorno 2 settembre 1736 annotava che.... "il Maso dei Rauti o Plazze, fu edificato avanti alcuni anni e appartiene alla parrocchia di Coredo, perciò il bambino qui notato fu battezzato in questa parrocchia, inutilmente reclamante il possessore del maso". Il possessore, presumibilmente il medico Ferdinando Floriano Concini, avrebbe gradito far battezzare il figlio a Taio ma il permesso gli venne negato. Nel 1717 Ferdinando Floriano Concini avendo bisogno di 100 Ragnesi, li chiese in prestito ad Antonio Sicher di Coredo, assicurandoli su un prato nelle pertinenze di Coredo detto al Maso del Rauto ossia Piazze. Il terreno confinava a mattina e a pomeriggio con il rivo, a sera con gli eredi di Giovanni Battista Massenza e a settentrione con il maso, per cui si può sicuramente riconoscere con quello segnato al punto n. 2, nell'elenco sotto riportato. Quindi nel 1717 troviamo la prima citazione del maso che fa presupporre la presenza di una costruzione circondata da terreni. E' molto probabile che il maso fosse rimasto diviso in due porzioni, perchè in vari documenti dal 1721 al 1730 nella zona di Campolongo, viene citato come confinante don Giovanni Romedio Concini, mentre nella zona del Plazzec troviamo il medico Ferdinando Floriano Concini, che forse era suo cugino. La proprietà Concini si protrasse fino al 1752, quando con un atto redatto il 3 maggio a Coredo, Romedio Giuseppe Concini vendeva il maso per la somma di 1425 Ragnesi a Francesco Rizzardi di Coredo. Dagli scritti non è emerso il grado di parentela fra Ferdinando e  Romedio Giuseppe ma ritengo potessero essere padre e figlio o, in alternativa, zio e nipote. Nel documento si dice che il maso era costituito dalla casa, assieme a beni arativi, vignati, prativi e boschivi annessi, nelle pertinenze di Coredo e in parte di Dermulo, nel luogo detto "ai Rauti". Sono poi elencati i confini: il rivo da due parti, Domenico Gilli di Taio, Bartolomeo Inama a nome della moglie, i fratelli Giacomo Inama e Gaspare Inama, Giovanni Battista fu Antonio Inama da due parti, Giacomo Mendini, Giacomo fu Ottavio Inama, eredi Guelmi di Scanna, il signor Giacomo Inama, il comune di Dermulo, il comune di Coredo, Antonio Giovanetti affittuario Andreis e Vigilio Moncher. Si dice anche che il maso era stato venduto nella sua interezza, ad eccezione di una  particella grezziva confinante con Giovanni Battista Inama, acquisita da Cristano Emer. In sconto alla somma di 1425 Ragnesi, il compratore si impegnava a pagare per il venditore Concini, un capitale di 800 Ragnesi presso Basilio Thun, e un altro di 100 Ragnesi presso Giacomo Sicher di Coredo. E' probabile che i capitali fossero assicurati sul maso e forse la presenza Thun, riscontrabile alla fine del Settecento è da imputare all'insolvenza di tale debito. L'8 giugno 1752 il Rizzardi si accordava con il masadore Michele Bentivoglio di Rallo perché recedesse dal contratto, così da poter avere da subito la disponibilità del maso. Per tale operazione dovette sborsare al Concini 92 Ragnesi e mezzo. Il 21 maggio dell'anno successivo, Francesco Rizzardi donava il maso al figlio Romedio, chierico, affinchè fosse provvisto di patrimonio e mensa sacerdotale. Il maso fu valutato più di 3000 Ragnesi. In occasione di questa donazione abbiamo una descrizione più dettagliata dei beni:

1 Una casa di muro e legnami con le sue comodità fornita di ara, stuva, cucina stabio e revolti ed altro, giacente in mezzo ai fondi.
2 Un prato sotto la casa verso Taio e vicino al rido.
3 Arativo vignato sotto la casa e sopra il predetto prato.
4 Campo arativo e vignato di là della casa verso sera,
5 Arativo sopra questo nominato.
6 Campo ridotto a prato al di là dei ultimi due fondi citati, con pergola in fondo.
7 Fondo vignato sopra la casa verso settentrione
8 Prato sul piano sopra questo fondo
9 Novalli di là della casa sotto il fondo nominato al 4
10 Altro novale sopra la casa verso settentrione e sotto il vignato 7
11 Bosco verso mattina e settentrione con roveri pini e altri arbori.
12

Altro bosco sotto il prato al Pian

Nell'agosto del 1753, Giuseppe Romedio Concini però, venne a conoscenza del valore attribuito al maso al momento della donazione che risultava essere più del doppio di quanto da lui ricevuto. Per tale motivo il Concini presentò le sue rimostranze al Rizzardi, pretendendo una somma aggiuntiva o, in alternativa, la restituzione del maso. Il Rizzardi si difese asserendo di aver migliorato i terreni e di aver comperato il maso non a prezzo di mercato. Per risolvere la questione fu interpellato di comune accordo Romedio Chilovi, il quale sentenziò che il Concini non potesse aver nessuna pretesa, in quanto il denaro da lui incassato rispecchiava il valore del maso al momento della vendita, perchè solo successivamente erano stati attuati dei miglioramenti ai beni che ne aumentarono il valore. Al Rizzardi però, allo stesso tempo, fu intimato di consegnare alla controparte 14 Zecchini d’oro perché nella donazione, aveva comunque gonfiato il valore del maso. Il 30 agosto 1778, il molto reverendo abate don Romedio fu Francesco Rizzardi concedeva in locazione perpetuale, quindi per diciannove anni, ad Antonio fu Lazzaro Fuganti di Taio il detto maso. Il conduttore Fuganti aveva promesso di coltivare il maso e di corrispondere al locatore 48 Ragnesi da 5 Troni l’uno o in alternativa l'equivalente valore in brascato. Oltre a detto canone doveva fornire anche una cesta di uva di 40 libbre,[2] della migliore qualità. Il Fuganti avrebbe potuto affrancarsi versando 1600 Fiorini, senza avere il diritto di alienarlo o affittarlo prima di aver sborsato tale somma. Il prete Rizzardi fece aggiungere anche la clausola sul suo diritto di passare per la strada del maso, al fine di raggiungere un bosco alle Piazze, comperato da Giacomo Antonio Inama di Taio.

Nel documento, oltre alle solite informazioni sul tipo di coltura, è citata anche la misura della superficie dei singoli terreni. Questo ci permette di conoscere l'estensione totale del maso che si attestava sulle 127 Staia, cioè circa 57.000 metri quadrati. Nel conteggio non figuravano i boschi e i due novali.

1. Casa fabbricata di muri e legnami con le sue comodità di ara, stuva e cucina dispensa, stabbio, revolti abbasso, giacente in mezzo ai fondi, ben coperta.
2. Prato sotto casa verso Taio vicino al rido di stara 26 e mezzo con arbori dentro.
3. Arativo vignato con arbori fra detta casa e il prato con pergole di stara 21 e mezzo
4. Arativo vignato di la della casa verso sera con 7 pergole lunghe di stara 21
5. Campo solo arativo e greggivo verso settentrione di stara 18
6. campo una volta prato ora greggivo di la dai due ultimi fondi con pergola in fondo di stara 15.
7. Arativo e vignato sopra la casa con 11 pergole verso settentrione di stara 10
8. Arativo sul piano verso settentrione ossia verso la valle delle Voltoline una volta prato stara 15.
9. un novale vignato al di la della casa sotto il fondo al n. 4
10. bosco verso mattina
11. Bosco sotto il campo n. 8

Don Romedio Rizzardi vendette al Fuganti anche un bosco giacente presso l'arativo indicato con il numero 8, e il bosco al numero 11, acquistato da Giacomo Antonio Inama di Taio.
Di queste proprietà troviamo riscontro sia nel Catasto Teresiano di Dermulo sia in quello di Coredo, e in particolare in quest'ultimo, redatto fra il 1782 e il 1783 Antonio fu Lazzaro Fuganti risulta titolare delle seguenti realtà:

1.  Una casa ai Rauti di 22 Pertiche. (n. 1672 sul CaTer di Coredo)
2. Prato sotto casa cui 1 rido 2 strade 3 4 esso possessore 922 Pertiche. (n. 1673 sul CaTer di Coredo)
3.
Arativo e vignato sotto la casa cui 1 detto prato, 2 altro prato sul distretto di Dermul, 3 4 esso possessore con strade 1335 Pertiche.(n. 1674 sul CaTer di Coredo)
4.
Arativo = Di la della casa verso sera = 1 il rido, 2 esso possessore su quello di Dermulo, 3 strade proprie di 84 Pertiche. (n. 1675 sul CaTer di Coredo) 
5.
Arativo= di la dela Casa= cui 1 proprio lastivo, 2 esso possessore e così 3 su quello di Dermulo, 4 greggivo d'esso possessore di 222  Pertiche. (n. 1676 sul CaTer di Coredo)
6.
Arativo e vignato sopra la casa cui 1 2 3 4 esso possessore di 1113 Pertiche. (n. 1677 sul CaTer di Coredo)
7.
Arativo =su in cima= cui 1 2 3 esso possessore 4 il comune di Coredo 894 Pertiche. (n. 1678 sul CaTer di Coredo)
8.
Bosco sopra la casa cui 1 4 3 il comune, 2 esso possessore. (n. 1679 sul CaTer di Coredo)

Dopo la prima investitura del 1778 la locazione pur rinnovata non giunse a compimento del periodo canonico di 19 anni, in quanto intorno al 1784 ricevettero l'investitura i Thun di Castel Bragher. Ciò è confermato oltre che dall'annotazione sul Catasto Teresiano di Coredo, nella quale si specifica che tali beni erano passati da Antonio Fuganti a Giovanni Vigilio Thun, anche da un inventario dei beni dei Thun di Castel Bragher, redatto nel 1788, dal quale risultava una passività di 40 Ragnesi annui, a titolo di livello a favore di don Romedio Rizzardi, dovutogli per il maso Rauti. Il capitale di affrancazione era lo stesso menzionato nel 1778, ammontante cioè a 1600 Ragnesi. Dal prenominato inventario ricaviamo che il maso dei Rauti e delle Braide pertinenze di Coredo e Dermulo con una casa e arativo vignato per 48 Stari, arativo per 56 Stari, prativo, compreso prato alle Braide o Rizzagn per 67 Stari, grezzivo per 10 Stari e boschivo per 20 Stari aveva una rendita annuale di:

Prodotti Fiorini

Formento Stara 18 a Xni 54

16:12
Segala Stara 12 a Xni 42 8:24
Legume Stara 3 a Xni 54 4:30
Formentazzo Stari 4 Xni 38 2:32
Panizzo Stari 2 Xni 38  1:16
Avena Stari 4 Xni 24 1:3
Denaro  16
La metà del brascato fruttava 55 Orne  a F.1 Xni 30 82:30
La foglia dei morari 6 sacchi 3:36

 

Il maso rimarrà in mano di Castel Bragher almeno fino al 1835 e sicuramente sarà stato affidato a dei masadori, che però ci sono rimasti sconosciuti. Il 5 febbraio 1838 risulta proprietario del maso, Giuseppe fu Giacomo Mendini, il quale, essendo morto don Romedio Rizzardi, riceveva la nuova investitura da Antonio Rizzardi, plausibilmente erede di don Romedio. Per detta locazione, il Mendini doveva corrispondere il canone enfiteutico di 56 Fiorini e 40 libbre di uva a titolo di ricongiunzione del dominio diretto del maso. Il 26 febbraio 1838, come citato in un atto del 1884, il conte Arbogasto Thun vendeva il maso denominato Rauti a Giuseppe fu Giacomo Mendini. Lo stesso Mendini si era obbligato a lasciar passare il conte, anche con carri, per la strada che passava sotto il maso e anche per il sentiero per pedoni che portava al maso delle Voltoline. I due documenti del 1838 sembrano in contraddizione, quindi la domanda che viene da porsi è la seguente: se Giuseppe Mendini aveva acquistato il maso dai conti Thun, allora cosa c'entravano ancora i Rizzardi, con il rinnovo di investitura negli anni successivi? La spiegazione è che il Mendini, in pratica era subentrato ai Thun come locatario del maso, ma i veri proprietari, in veste di locatori erano sempre i Rizzardi. Quindi i Thun non versarono mai i famosi 1600 Ragnesi, con i quali sarebbe potuti diventare proprietari del maso a tutti gli effetti. Questa opzione fu invece ad un certo punto applicata dal Mendini.
Nel 1870 Antonio Rizzardi era già passato a miglior vita e il credito nei confronti dei Mendini fu ereditato dai quattro figli: Antonio, don Celestino, Giobatta e Luigi. In seguito i fratelli Rizzardi si erano accordati che il credito riguardo al maso toccasse a don Celestino. Qualche anno prima, nel 1867 era morto anche Giuseppe Mendini e nel 1872 i suoi tre figli Celeste, Luigi e Filippo divennero eredi in parti uguali della sostanza paterna, fra cui il maso, e quindi anche il debito nei confronti dei Rizzardi. In quegli anni infatti il maso risultava ipotecato a favore di don Celestino Rizzardi, decano in Fassa. Nel 1861 e nel 1867 due documenti ci informano che Giovanni fu Giovanni Massenza era masadore ai Rauti. Sicuramente il Massenza, che era stato soprannominato "dai Rauti", era manente al maso ben prima del 1861 e vi rimase fino alla morte avvenuta nel 1882. Sappiamo anche che Pietro Chistè era masadore al maso e quindi essendo lui morto nel 1832, il cognato Giovanni fu Giovanni Massenza dovrebbe aver preso il suo posto. Da circa il 1882 fu masadore dei Mendini, Daniele Inama di Dermulo che visse al maso con la sua famiglia fino a circa il 1901. Nel 1871 i fratelli Celeste, Luigi e Filippo fu Giuseppe Mendini vendevano a Giovanni Battista Leonardelli un terreno incolto nel Vallone del loro Maso Rauti, per 250 Fiorini. Una vendita simile avvenne anche nel 1876, sempre con un terreno al Vallon del Maso Rauti ossia Plazze a favore di Davide e Francesco Leonardelli di Coredo. Ma eccettuate le predette vendite, ben maggiori furono le acquisizioni da parte dei Mendini, che ampliarono considerevolmente l'estensione del vecchio maso.

Alla fine del 1882 i tre fratelli Mendini, che fino ad allora possedevano tutti i beni in comunione, raggiunsero un accordo che prevedeva l'uscita del fratello Luigi dal possesso comune. Il maso Rauti, assieme ad altri immobili a Taio e a Dermulo, sarà quindi proprietà dei due fratelli Celeste e Filippo Mendini. Su questo scritto fanno comparsa per la prima volta le particelle fondiarie. Quelle relative al maso sul comune di Dermulo erano le seguenti: 732 733/1 , 734 735/735/2, 736 737 738, 860  861, e quelle dell'arativo a Campolongo 849, 853/853/854. Inoltre le seguenti particelle, si dice, furono acquisite da Lorenzo Eccher: 812/1 812/2 813 815 816 817. Mentre da Aurelia Chilovi di Taio furono acquisite nella località all'Oselera: 739 740 741, 772 773 774 e 775. Sulla p.f. 739 sorgeva un roccolo per l'uccellagione.
Nel 1884, i fratelli Mendini avevano costruito un nuovo tronco di strada che portava a Dermulo, cambiando in parte il percorso di quella preesistente. In un documento dello stesso anno i Mendini riconoscevano al conte Francesco Thun il diritto di passaggio anche su questa strada, richiamando i vecchi accordi presi nel 1838, al momento della compravendita del maso.
Nel 1893 moriva senza discendenza Filippo Mendini, il quale nel suo testamento redatto l'anno prima, aveva eletto suo erede universale il fratello Celeste. L'avvocato Celeste Mendini, che risiedeva a Cavalese, e che già possedeva metà dei beni assieme al fratello Filippo, ereditandone la sua parte ne divenne l'unico proprietario. Nel documento di assegnazione del 1896, oltre ai beni giacenti a Taio e altri nel territorio di Dermulo, sono elencate le seguenti particelle fondiarie che in quell'anno formavano il maso Rauti insistenti sul comune catastale di Dermulo: 812/1 812/2 813 815 816 817 739 740 741 772 773 774 775 734 735/735/2 736 737 738 860 861 858 859 821 822 874 875 867 868 869 742 743 744. Appaiono inoltre, il fabbricato rustico n. 72 e tutte le altre p.f. sul comune catastale di Coredo.[3] Durante la proprietà Mendini, il maso era stato ampliato con l'acquisizione di altri appezzamenti. Erano stati bonificati alcuni terreni grezzi e costruiti altri edifici colonici, tanto che la vecchia denominazione "Mas dela Fam", così chiamato da epoca immemorabile, quando era ancora in possesso dei Thun, per la natura rocciosa e poco produttiva dei terreni, non trovava più ragione di essere.[4] Nel 1909 dalle 300 piante coltivate si raccoglievano 150 quintali di frutta. Fino a 1901 fu manente dei Mendini, Daniele Inama di Dermulo, che dimorò al maso con la sua famiglia.
Nel 1907 Celeste Mendini, un anno prima di morire, alienava il maso al suo ultimo mezzadro Giuseppe Depaoli di Monte Terlago e a suo figlio Giuseppe che entrarono così in possesso rispettivamente per 3/4 e 1/4 del maso, sborsando complessivamente la somma di 24.000 Corone. Dal 1895 Giuseppe Depaoli senior era stato colono al maso Panizza di Taio. Poi, almeno dal 1901, si era trasferito al maso Rauti come mezzadro di Celeste Mendini.

Nel 1907 Giuseppe Depaoli vendeva i suoi averi in quel di Terlago, e trasferiva al maso Rauti: due buoi, una vacca e due vitelle. Del maso facevano parte in quegli anni altri terreni per una superficie di due ettari, che non entrarono nella compravendita. In particolare alcuni appezzamenti "al di là del rivo", il Mendini li riservò per uso proprio. Altri terreni, formati dalle p.f. 511, 512, 467, 490, sul Comune Catastale di Taio e 861 e 867, sul Comune Catastale di Dermulo, furono venduti da Celeste Mendini a persone terze, per il prezzo di 10.500 Corone. Al momento della compera il maso veniva irrigato in turni da 9 giorni e possedeva dieci ore e mezza di acqua fornita dal consorzio irriguo comunale di Dermulo. I quattro fratelli poi nel 1921 acquistarono da Francesco Leonardelli, Davide Leonardelli, Francesco Borz e Isidoro Borz di Coredo, il diritto di acqua, alcuni terreni e la servitù di passaggio per condurre l'acqua dalla località Vallarc al loro maso.
Nel 1909 Giuseppe cedeva parte del maso ai figli, Giovanni, Bartolomeo e Massimo, che si erano impegnati per il mantenimento dei genitori. Nello stesso anno, i tre fratelli apportarono molte migliorie al maso e piantarono 700 piante da frutto e 300 ceppi di vite, con l'aiuto di due famei.
Con testamento di data 9 marzo 1912 Giuseppe Depaoli Senior dichiarava eredi i suoi quattro figli Giuseppe, Massimo, Bortolo e Giovanni, in parti uguali e lasciava la legittima alle due figlie Carlotta e Maria.
Tutte le case del maso, benchè prossime al confine, insistono sul comune di Coredo, fatta eccezione per quella denominata le barache che fu costruita parte su Coredo e parte su Dermulo. Alla casa, da parte del comune di Dermulo, era stato anche assegnato il numero 33. Attualmente tutto il maso appartiene alle famiglie Depaoli.
 

LA DISCENDENZA DI GIUSEPPE DEPAOLI

 

 

IL MASO VOLTOLINE

 

La prima notizia relativa al maso Voltoline risale al 1663, quando troviamo proprietario Silvestro Moncher di Coredo. Non conosciamo nel dettaglio la struttura del maso ma, similmente al maso Rauti, aveva la caratteristica di insistere, oltre che sul comune di Coredo, anche su quello di Dermulo. La casa colonica del maso Voltoline era posta pressappoco al centro della proprietà che era meno estesa e meno pianeggiante rispetto a quella del maso Rauti. Come affermato più sopra, nel 1663 appariva la citazione delle Voltoline in occasione di una diatriba fra l'allora possessore Silvestro Moncher e la comunità di Dermulo, riguardo ai danni provocati dal bestiame del Moncher ai terreni comunali. Trent'anni dopo, nel 1693 con Silvestro già passato a miglior vita, il maso era pervenuto al figlio Vigilio Moncher. In quell'anno si era arrivati alla risoluzione di un'altra lite per la proprietà di un bosco fra il Moncher e i fratelli Bartolomeo e Giovanni Domenico Massenza, che si era protratta per diverso tempo a suon di ricorsi e accordi non rispettati. Il consigliere Domenico Merzi di Trento, presso il quale si erano appellati i contendenti, deliberò che le parti non dovessero più litigare e rimanere in amicizia, che le spese giudiziali fossero pagate metà per ciascuno; che metà del boschetto verso il maso fosse assegnato al Moncher, mentre la metà a valle ai fratelli Massenza. Inoltre i Massenza permutarono con il Moncher anche un loro gazzo contiguo al menzionato boschetto sempre alle Voltoline, confinante a mattina con il comune di Coredo e il rivo, a mezzodì con Giacomo Inama e gli eredi di Vittore Inama, a sera con Vigilio Moncher sotto il suo maso e a settentrione con i fratelli Massenza. Per tale terreno i Massenza dovevano ricevere un altro campo nelle medesime pertinenze, cui a mattina il Moncher, a meridione il comune di Dermulo, a sera e settentrione il comune di Dermulo. Infine il Merzi intimò anche di costruire a comuni spese, la strada giù al rì perché i Massenza possano raggiungere il restante loro bosco di sopra. Da quanto risulta da un paio di documenti, nel 1696 e nel 1717, una parte del maso risultava essere dei fratelli Silvestro e Antonio figli del fu Vigilio Moncher. Il fu Vigilio presumo fosse un fratello di Silvestro citato nel 1663.

Vigilio Moncher rimase proprietario del maso fino al 1743, anno in cui lo cedette in permuta a Giuseppe Bombarda di Coredo. Giuseppe Bombarda aveva assegnato a Vigilio Moncher tutti i fondi soggetti al Beneficio Bombarda. Nell'anno precedente, in un documento redatto nella casa rusticale di Silvestro Moncher al maso Voltoline, i regolani della comunità di Dermulo vendevano un terreno incolto a Giorgio Tommaso Bombarda, per lui presente il padre Maurizio. Quindi sembra che il maso fosse diviso in due porzioni, poi unificatesi per mano della famiglia Bombarda. Il maso rimase in proprietà del Bombarda fino al 1778. Il 30 agosto 1778, con documento redatto al Maso Voltoline, Giuseppe Bombarda vendeva a Michele Sicher di Coredo, presente anche a nome del fratello, il suo maso posto in parte su Coredo e parte su Dermulo, detto alle Voltoline, a corpo non a misura. Il maso era costituito da arativo, vignato, prativo, boschivo con una casa di muri murata e legnami edificata giacente in mezzo a detti beni sul territorio di Coredo.

I beni confinavano a mattina con la comunità di Coredo e il rivo delle Fontane da Rizzol, a mezzodì con Valentino Haggen, Antonio Cescati, Pietro Vittore Barbacovi tutti di Taio e col rivo, a sera con la comunità di Dermulo, Giacomo fu Ottavio Inama e Giovanni Inama, e a settentrione con la comunità di Dermulo e la comunità di Coredo. Il maso era stato venduto per la somma 1000 Ragnesi pagabili in 10 anni con tutte le strade, le servitù, e l’uso dell’acqua della fontana di Rizzol, per irrigare i prati. Alla fine del 1781, dopo nemmeno tre anni di proprietà, i Sicher cedevano il maso ai Thun di castel Bragher che infatti ne risultano proprietari dal catasto teresiano di Coredo. In un documento del 1790, si afferma che per compera del Maso alle Voltoline dai fratelli Antonio, Michele e Giacomo fu Valentino Sicher, il conte Giovanni Vigilio Thun doveva ancora sborsare 700 Ragnesi. Detta somma andava consegnata al patrizio tirolese Giuseppe Bombarda de Zuegg Aureni e Castel Labers, creditore di detto maso. Nel catasto compilato fra il 1782 e il 1783 sono elencati i cinque beni proprietà di Giovanni Vigilio Thun comprendenti: la casa rustica di 48 Pertiche, un prato di 1056 Pertiche, un arativo vignato di 345 Pertiche, un "greggio" di cui non è specificata la superficie ed un bosco di 5 Piovi. I beni sono contrassegnati dal n. 1464 al n. 1468 e tutti sono naturalmente localizzati alle Voltoline. A questi vanno aggiunti i terreni che invece insistevano sul territorio di Dermulo: un prato di 816 Pertiche, un arativo vignato di 3216 Pertiche, un greggio e un bosco di 576 Pertiche.
Da un inventario dei beni dei Thun di Castel Bragher, redatto nel 1788, si evince che
il Maso delle Voltoline consisteva in una casa, 68 Stari di arativo vignato, 15 Stari di prativo, ben 100 Stari di grezzivo e 50 Stari di boschivo.
Il maso fruttava annualmente:
9 Ragnesi in denaro, due terzi di brascato comportante 35 Orne e 8 sacchi di foglia dei morari.

 Nel 1782 la comunità di Dermulo riunita in regola, liberava dal diritto di pascolo in ogni tempo ed ogni altro stabile del Maso alle Voltoline, per quella porzione che ridotta a coltura esistente sul tenere di questa villa. E questo hanno fatto per i prezzo di 25 Ragnesi qui contati e consegnati dal conte Thun. Con l'acquisto Thun, al maso fu instaurato un masadore: il primo di cui si ha notizia è Giovanni Inama di Dermulo che risultava risiedere al maso nel 1785 e anche nel 1786. Intorno al 1808 troviamo masadori alle Voltoline, ancora proprietà Thun, i fratelli Giuseppe e Pietro fu Francesco Mendini di Dermulo. In seguito Giuseppe lasciò il maso al solo Pietro. Per circa trent'anni non si hanno più notizie circa il masadore, poi nel 1836, vi troviamo Andrea Martini di Revò. Il Martini che aveva sposato nel 1811 Maria Mendini, figlia di Matteo di Dermulo, potrebbe aver abitato già dall'epoca del suo matrimonio nel maso. Questo lo possiamo supporre perchè almeno dal 1816, sono registrate delle nascite e dei battesimi dei figli dei due coniugi nella chiesa di Coredo. Nel 1840 il conte Arbogasto Thun alienò il maso ai fratelli Pietro, Giuseppe e Bartolomeo figli di Bartolomeo Mascotti di Coredo, soprannominati Piloni, che furono suoi masadori. Nel 1882 il maso fu suddiviso fra Pietro Mascotti padre e Pietro Mascotti figlio. Nel giugno del 1918 il maso, detto anche “Pilon”, fu devastato da un incendio che fu domato anche con l’intervento dei pompieri di Dermulo. L’incendio sembra sia stato di origine dolosa, causato da soldati di passaggio che avevano avuto degli screzi con i proprietari del maso.[5] Intorno al 1920 il maso apparteneva ai tre figli di Pietro Mascotti: Valentino, Luigi e Germano. Quest'ultimo aveva acquisito la parte di Valentino e l'aveva venduta, comprensiva della sua, ad un certo Mariotti, gendarme a San Bernardo di Rabbi. Riguardo alla casa del maso, Valentino possedeva la parte a nord, Germano quella centrale e Luigi detto Gigio, la parte a sud. Il Mariotti venne a conoscenza che Domenico Zinzarella era in cerca di un maso in Val di Non che fosse fornito di acqua, dove poter sistemare uno dei suoi figli. Quindi il Mariotti tra il 1924 e il 1925 vendeva il maso a Domenico Zinzarella che lo intestò e lo diede in beneficio al figlio Augusto, padre di Luciano. Nel 1930 Luigi Mascotti vendeva la sua parte di maso a Casimiro Jachelini pure di Rabbi.


[1] Il Concini che almeno dal 1634 risiedeva a Taio, dove in quell'anno era sindaco della Chiesa di Santa Maria, era originario di Casez.
[2] Una libbra corrisponde a Kg 0,56 quindi 40 libbre, (lire in dialetto) corrispondevano a Kg 22,4.
[3] Le notizie esposte da qui in avanti sono state ricavate dagli scritti inerenti la causa civile di Maria Depaoli contro i fratelli Massimo, Bortolo e Giovanni Depaoli fu Giuseppe. Maria Depaoli sorellastra degli anzidetti Bortolo, Giovanni e Massimo, e moglie di Giacomo Inama di Dermulo presentava ricorso in data 26/08/1927, perché la parte legittima da lei percepita dopo la morte del padre Giuseppe non le risultava adeguata. Il 25 agosto 1928 si aggregarono alla petizione di Maria Depaoli anche Mario ed Augusto Depaoli figli di Giuseppe fu Giacomo di Terlago e di Carlotta Depaoli. Carlotta era una sorella di Maria morta nel 1900. Le pretese furono elevate dalle 31.937 lire a 41.401, perché si disse che la vendita del Mendini comprendeva oltre alle 27.038 Corone, altre 5.000 Corone da pagare entro 6 mesi, per un totale quindi di 32.038 Corone. Il documento espone poi le varie ragioni delle due parti, una per comprovare la correttezza nel calcolare la legittima, l’altra per dimostrare il contrario.
[4] La denominazione infatti risaliva ai primi anni dell'esistenza del maso esistenza, quando c’era solo un casolare con poco terreno in parte incolto e in parte boschivo.
[5] Informazione avuta da Luciano Zinzarella.