L'EPIDEMIA DI COLERA

   

Il colera è una grave malattia intestinale acuta, causata da Vibrio cholerae e caratterizzata da insorgenza improvvisa di diarrea profusa con feci acquose, vomito, rapida disidratazione, acidosi e collasso circolatorio. L’uomo è la riserva dell’infezione e la malattia viene trasmessa attraverso il consumo di acqua contaminata dalle feci di malati o portatori, o attraverso cibo contaminato dall’acqua, dalle mani sporche, dalle mosche. Il periodo di incubazione varia da alcune ore a cinque giorni (di solito 2-3 giorni).

Oggi si conosce tutto di questa malattia, ma in passato non era certamente così, si cercava, almeno in teoria, di prevenire, ma allo scoppio dell’epidemia non c’erano dei veri e propri rimedi.

Nell’Ottocento due gravi epidemie imperversarono in tutto il Trentino: la prima nel 1836 che sembra aver appena sfiorato il nostro paese e la seconda nel 1855 che invece lo colpì molto duramente.

Nel 1836 a Taio, si contarono ben 44 persone decedute causa questo temibile morbo, a Dermulo non ho trovato notizia di morti, ma qualche ammalato ci dovrebbe essere stato. Infatti nel conto comunale di quell’anno, erano contemplate delle uscite come compenso per i due infermieri Romedio Endrizzi e Giovanni Mendini e per la lavandaia dei colerosi Maria orfana. Inoltre nel conto consuntivo comunale del 1840, è conteggiata una somma di F.59 X 24 (59 Fiorini e 24 Carantani) che il comune doveva restituire agli eredi di Antonio Inama fu Silvestro. Tale somma, si specifica, fu prestata dall’Inama per sostenere le spese incontrate durante il Morbus Cholera. Per l’acquisto di medicine, si erano inoltre spesi presso la spezierìa Bergamo di Taio, F.9 X 50.

A Taio, il primo caso di morte segnalato dal parroco don Valentino Chilovi è del 21 agosto del 1836, quando morì una ragazza diciannovenne. Il 9 settembre Dermulo era ancora risparmiato dal morbo, e in una lettera indirizzata al vescovo dal predetto don Chilovi si chiedeva, che fosse ordinato a don Giacomo Mendini di rimanere permanentemente a Dermulo e non di fare la spola con Taio.

Nel 1855 invece, il paese causa il colera, subì una ingente contrazione demografica; si passò infatti da una popolazione di 145 individui ad una di 129. Dal libro di Alberto Folgheraiter “La collera di Dio” risulta che a Dermulo la malattia iniziò il 12 settembre e terminò l’8 ottobre; si ammalarono 33 persone (il 22%) e di queste ne morirono 16 (l’11%). Dal libro dei morti presso la Parrocchia di Taio si può rilevare che i morti causa il colera nel 1855, furono proprio 16, i loro nomi sono esposti nella tabella qui sotto.

 

COGNOME E NOME          CHI ERA?

DATA DI MORTE

ETÀ ANNI

Inama Maria                  moglie di Giacomo Inama Sep

12 settembre

38

Inama Luigi                   figlio di Giovanni Rodar

14 settembre

42

Brida Vittore                 masadore dei Mendini di Taio

14 settembre

70

Tamè Luigi                    figlio di Vittore e Teresa

15 settembre

20

Endrizzi Maria             maestra - figlia del fu Giovanni

15 settembre

61

Endrizzi Vittore            figlio di Giacomo e Rosa

15 settembre

Endrizzi Eugenio           figlio di Giacomo e Rosa

16 settembre

6

Endrizzi Camillo            figlio di Giacomo e Rosa

16 settembre

8

Endrizzi Davide            figlio di Giacomo e Rosa

16 settembre

4

Inama Giovanni             Capocomune - detto Sep

17 settembre

51

Brida Giacomo              figlio del fu Vittore

17 settembre

42

Endrizzi Antonio          padre di Giacomo

17 settembre

71

Inama Giovanni             Segret. Com. - f. di Baldassare

18 settembre

50

Inama Caterina             vedova di Giovanni Sep

19 settembre

49

Tamè Filippo                 figlio di Vittore e Teresa

22 settembre

30

Battisti Antonio            figlio di Luigi di Fondo

22 settembre

41

 

Da questo quadro, ricaviamo che l’età media dei morti era di 36 anni, inoltre possiamo affermare che il morbo si accanì in poche abitazioni. A quanto si desume dai morti, furono particolarmente colpite le case n. 2/3 e 9/11. Nella casa di Giacomo Endrizzi si ebbe una vera strage, infatti perirono 4 suoi figli, e il padre Antonio. Anche la casa del capocomune Giovanni Inama fu funestata dal morbo e i suoi quattro giovani figli rimasero orfani di entrambi i genitori.

Da uno scritto che il comune inviò all’ I.R. Capitanato Distrettuale di Cles, si rileva che il defunto Filippo Tamè era tutore dell’esposto Giovanni Pircher, e Antonio Endrizzi tutore dei due nipoti orfani Carlo e Giovanni Endrizzi. Si dovevano quindi nominare due nuove persone per tale scopo. Nel documento si evidenziava anche, chi fra i morti di colera, aveva redatto testamento e chi no.

I morti non furono sepolti nel cimitero del paese, ma in un terreno comunale a Somager. Nel 1880 il comune decise di vendere a privati di Dermulo alcuni terreni, fra i quali anche quello dove erano stati sepolti i morti di colera. La sepoltura dei colerosi era stata effettuata in una delle seguenti p.f.: 771/2, 771/3, 771/4, 771/5. Quindi dopo domanda alle Autorità di Cles venne concesso di prelevare i cadaveri, che dovevano poi essere tumulati nel cimitero comunale.

Nel 1836 risulta che nel territorio competente alla Pretura di Cles ci furono 10 morti di colera[1]. Ciò contrasta con i 44 morti che si ebbero solo a Taio. Nello stesso anno però nella Pretura di Mezzolombardo si ebbero 511 morti.

 

     

 

A titolo comparativo, si riporta la situazione a fine malattia di alcuni paesi vicini a Dermulo nel 1855:[2]

 

 

PAESE

numero di morti

abitanti prima della malattia

% morti sul totale di abitanti

COREDO

24

844

2,8%

SANZENO

47

308

15,3%

DERMULO

16

145

11%

TAIO

4

659

0,6%

TASSULLO

86

1204

7,1%

TRES

7

615

1,1%

 

Nel 1855 era medico condotto a Taio, il dottor Daniele Danielli di Mezzolombardo che al primo caso di morte a Dermulo, scrisse la seguente lettera[3] al Capocomune Giovanni Inama. Il destinatario non sarà forse nemmeno arrivato a leggerla, visto che si ammalò e morì pochi giorni dopo!

 

Signor Capo Comune di Dermullo

La vorrà invigilare che sieno tolte le communicazioni colla casa di Inama Giacomo di costì ove l’altro giorno si ebbe a deplorare un caso di Cholera mortale.

Quindi si sequestrerà la famiglia, nonchè l’inidividui che prestarono l’opera loro dietro l’ammalata, e sepellirono il cadavere, e tale sequestro durerà fino a nuovi ordini. Ben inteso però che l’inidividui sequestrati saranno provveduti dalli esterni di quanto loro occorresse a vivere.

Nella stanza ove fu l’ammalata resterà l’ordinato suffimigio fino domani mattina 14.

E per pulirla non entreranno che l’individui dal Comune stabiliti a infermieri, conspargendo nell’entrarvi il pavimento con Cloruro di Calce posto nell’acqua.

Le biancherie dalla decessa loradate, e che furono poste in una tinozza, lungi dal paese saranno lavatte dal liscivio ove sono state immerse, e ivi ben lavate ed asciugate, e quindi sottoposte ad un nuovo liscivio, poi si potranno adoperare inpunemente.

Questa operazione la farà eseguire pure dalli infermieri, o da apposita lavandaia, e sempre nell’ore di sera, o alli albori.

Una cosa poi devo caldamente raccomandarli di inculcare ai suoi Comunisti, onde non si abbiano a pentirne che ben male si comporterebbero coloro che colti da un male inteso timore abbracciassero il sconsigliato partito di abbandonare il paese per porsi a vivere all’aperto sotto tende.

L’esempio dei paesi vicini è di prova che tale misura fu fatalissima a molti che perirono egualmente con pochi soccorsi e qualcuno con nessuno abbandonati fin anco da quelli che coabitavano nella comune tenda.

Questo lasciare il proprio paese in occasione di pubbliche calamità è un mezzo di accrescersi il timore nei fuggenti d’insinuando in chi rimane, di porre la disperazione in quelli infelici che ammalassero, di desolare così insomma un paese. Comune la sventura e comune deve essere il pericolo.

Nell’atto che le communico questi miei consigli la riverisco.

Taio 13 7mbre 1855.                                                                                                                           Il Medico Condotto

                                                          D.Danielli

 

 

 

Riporto ora la poesia che il poeta noneso Pietro Tommaso Scaramuzza di Cles scrisse a proposito di questa malattia.

 

LA RIZÈTA DEL COLERA

 

Misser Zoan

Ciaro compare, la è putost bruta

gen ci 'l colèra — ce bat a l' us,

per spetolarla — 'se 'g la vuel tuta,

percé ci 'l ciapa — l è ponf gió 'l bus.

 

Misser Tomàs

E ben ! Pasienza ! La nossa vita

Dio ne l' à data — per farne trar,

ci per durezza — ci per la sggita

un a la bòta — busogna nar...

 

Misser Zoan

Gias ben bel dir ti ciaro compare,

lo sà ància 'l dugo busogn morir!

Ma l' è 'n tel narsen — ce sta l' afare,

en tel trar fuera l'ultim sospir

Io ciance 'l diavol— gió 'n le budele

el vuel ce s' urlia dal pu gran mal,

ìo, ciance trema — le tavernele,

e ce i sgiaretoi fa ultim bal.

L’è alora, alora ce i sudorini

i vegn giò fredi e i 'nglacia 'l cuer,

ciazzo ! se i trema - sti mosciardini

con tant ed lengia ce i picia fuer.

El tuel i gioni e i senegidi,

i vecli, i forti e d' ogni mus.

Demò a pensarge — em vegn fastidi -

la ciegiarela la è cì sul bus.

 

Misser Tomàs

Oh! ce martufo, ce marciantoni,

aver en corpo sì gran spavent!

Voruèi ben dirte: ses del demoni,

o press a puec, veh — ce 'g sest arent,

se da tanti ani ce mi 't cognossi,

no 't podéss creder — per en bon om,

ce giàs cosienza, ce sess dei nossi,

ce às tratà semper — da gialantòm.

Ma pur vuei dirte ce sti tremori,

ce sti spaventi i te fa mal;

percé 'l spavent — fa 'l coricori

e 'l cori cori el 's fa mortal.

E tanti tanti, crédemel pura,

no l' è 'l colera — ce i fa morir!

ma l' è cel spigol — la gran paura,

ce i già 'n le vene — e i cogn sbertir.

 

Misser Zoan

Sermona pur ti, ciaro compare,

le tuei parole le è trate al vent,

mi 'm par de véder — za per tut bare,

e i omni morti a zent a zent.

E po' se vardi - per tut sti siori,

e boni e tristi - i sta tremant,

e sti 'nfermieri - e sti dotori

« l'è 'n mal ce 's ciapa » i va zigiant.

 

Misser Tomàs

Ma ce pòer Dugo ! « L'è 'n mal ce 's ciapa »

la zent asperta — no l' à mai dit.

L' è 'd cei dotori ma dala clapa

Ce mili ‘nsema no i val ‘n sggit.

Ma crederuestus ce sti dotori

Ce sti infermieri,' se l credess cel,

per ben del pross’em .-.per cater bori,

i fuss sì mati - _ de risciar ‘la .pel?

L’è tut fandogne - come i ciasoti,

ce i n’ha ’n'plantadi - per sfumentar!

l’è tut paure - de sti ciapoti

ce i cret coi fumi - podérs salvar.

L’è tut pazzie - l’è bufonade

ce ‘n ziel, ne ’n tera, _no le puel star:

de prepotenza su - per le strade,

sti peori mostri -voler fermar;

volér far creder ce coi bastoni,

ce cole guardie se ’l tegnia ’ndr‘é!

E no vues dir mò - ce l’è bufoni

e ce i è mati - ci ’g presta fé?

Vedras, compare -da la so ora

se ’l sior colera no ’l vegnìrà,

e come ’n fulmen - tut ciant sot sora,

ciàsoti e guardie no ’l baterà!

 

Misser Zoan

Sì, ti compare - giaràst reson

e za ’m la parlest - da zizeron,

ma ’m senti ’l stomec - tant engropà

dala paura - ce ’m sta zo ’l flà!

No pues dormir - no pues magnar

mi no fon auter ce sanglotar

e s’ài da dirte la verità

mi d’ darla a giambe – ài destinà.

 

Misser Tomàs

Se vuest far giambe – no sai ce dir:

ma forsi dopo te puest pentir;

ti gias fameia e ‘t costa ciar

sto far da cingeni – sto plindenar.

Dio pur no ‘l fagia – ma sto malan,

se ‘l fes la ronda – ogni aoter an

poràs mo’ semper - farla da grant

e arast i bori - da far sto tant?

Percé n’ ài viste dal trentasei

fameie ’ntrege - nar fuer d'ei pei,

spender e spander a plata man

e dopo nude, strussiar tut ’l’an,

E po’ l’an drege - al ciarantòt,

ance ’l tornava - aver pu ’ngot

e, pur spaventi - dover star ci

e l’è stà i primi - ce l’à sbertì.

Dà fé - compare - a sto cojon,

no stà a sgrassarte - stà ci ’n planton,

coi tuei de ciasa - sul to foglar

e i sciampia i siori - se i vuel sciampar.

E se ’l colèra te fess tremar,

sènti ’l rimièdi - ce ’t puel salvar,

l’è na rizeta - dei nossi di

e l’esperienza la ’nsegna aossì:

«Abi zudìzi - vivi lizér,

no aver paura - bevi ’n bizér;

no far strapazi - no sfadigiar!

E po’ ’l colera no ’t puel mazar.

Ma scòuta pura - se ses notà

su la so lista - busogn nar là;

percé no ’l conta - stòrzer el mus

sora i decreti del nos Paus.

E po’ compare - già ’l saverast

el pér el croda - ance l’è giast

e con en sofel ed cel Susora

el mondo ’l và - a la malora

Per tant ce tràgien, de man e pei

noi saren semper - i so famei

e cian ce ’l cigia:  - oòh nid cià,

no g’ è monade, busogn nar là.

 

 


 

[1] Cfr. Alberto Folgheraiter “La collera di Dio”, Pag. 135

[2] I dati sono stati tolti dal libro di Alberto Folgheraiter “La collera di Dio”.

[3] La lettera si trova nell’ ACD nel faldone relativo all’anno 1855.