LA CASA N° 13 - 14 - Casa
Sopra la Chiesa - C. del Mafuola? - C. Inama -
C. al di là del rì
(Oggi Via del Borgo n. 6, 8 e 10) P.E. 34
L'ORIGINE
Il caseggiato n. 13-14 e 28, sorge nella parte di Dermulo a nord del
Pissaracel, una volta detta
"Al di là del Ri"
o
"Sopra la Chiesa"
e
oggi denominata Borgo.
Per molto tempo di questa casa, per certi versi un po' misteriosa,
si è saputo molto poco, essendo mancati, a differenza di altre abitazioni, riferimenti
chiari sulla proprietà. Per avere notizie certe,
bisognerà aspettare fino alla metà del Seicento, quando
Giovanni Battista Inama
figlio del fu Valentino, si trasferirà dalla casa
paterna ai Marini, nella casa "Al di là del Ri".
Abbiamo anche degli indizi abbastanza solidi, per affermare che precedentemente
a Giovanni Battista, la casa fosse appartenuta (almeno in parte) alla mensa
vescovile di Trento e ai Thun.
Ora affrontiamo cronologicamente la sequenza dei possibili proprietari della
casa, a partire dalla fine del Trecento, per poi ricollegarci, due secoli dopo,
a quanto detto sopra. Il primo personaggio noto, plausibilmente attinente con la casa è un
abitante di Dermulo di nome Lanzono che è documentato nel 1380, come confinante
di un terreno alla Croce. Da lui ha preso il nome un maso di Dermulo,
ragionevolmente riconoscibile con la nostra casa.
Nel 1461 il vescovo Giorgio Hack concedeva il maso come feudo livellare a un
carpentiere di Coredo, tale Giovanni,
il quale corrispondeva il relativo canone quantificato in due capponi. Nel
1467, sullo stesso maso fu investito del diritto di riscossione della decima, il massaro
Antonio da Coredo.
Nei primi anni del Cinquecento, troviamo un altro individuo, per il quale sono
emersi diversi collegamenti con questa zona del Borgo: Antonio Gatta di Coredo.
Ebbene, ho ragione di ritenere, confrontando la genealogia di questa antica
famiglia, che Antonio fosse un nipote di Giovanni, il carpentiere di Coredo.[1]
Evidentemente dopo la morte di Giovanni, il maso fu ereditato da Antonio e di
questo, ci fornisce la prova un documento del 1526, dove il Gatta è citato come
confinante, a est della futura casa n. 20-21.
Antonio appare confinare allo stesso modo anche nel 1534, mentre nel 1561 sono
citati i suoi eredi, per cui era già passato a miglior vita. Queste interessanti
notizie, ci sono giunte attraverso i vari documenti d'investitura riguardanti il
maso (in particolare la casa ubicata a valle del caseggiato di cui stiamo
parlando) che i dinasti di Castel Valer possedevano a Dermulo. Gli stessi
documenti di investitura ci illuminano anche per i successivi anni 1581 e 1600,
dove, al confine est, in sostituzione dei Gatta, troviamo
niente meno che i Thun.
Dobbiamo quindi convenire che i possessi dei Gatta, fra il 1561 e il 1581,
erano transitati ai conti Thun.[2]
I dinasti di Castel Bragher, quindi in quel periodo risultavano essere in
possesso, oltre che dell'antica Clesura,
anche del sedime e pertinenze del futuro caseggiato n. 13-14. I documenti di
investitura di Castel Valer, per i successivi anni 1625 e 1641, designano come
confinante ad est, un tale
"Antonio conduttore", ovvero Antonio Mendini. Ciò significa
che i Thun avevano locato i beni che furono dei Gatta, al Mendini che era pure
affittuario del maso di Castel Valer.[3]
Gli anni Cinquanta del Seicento è il periodo in cui il caseggiato fu occupato
da Giovanni Battista Inama e dai Massenza
che lo precedettero di qualche lustro.
Riguardo a quest'ultimi, sono arrivato alla
conclusione che
la proprietà
di parte della casa, fosse da attribuire a Leonardo Massenza figlio di Simone II. La
ristrettezza e/o la precarietà della casa
n.16
(o forse della casa
n.15),
l'aumento dei componenti anche fra le linee collaterali della famiglia e la
disponibilità di una nuova abitazione, avrebbero indotto
Leonardo, ad acquisire, dall'allora plausibile proprietario, (Thun?) la casa
di cui si parla. Che nel colomello
n.16-17-18-19, tra il 1620
e il 1630, esistessero problemi di spazio è comprovato dall'uscita dei due
fratelli di Leonardo, Giacomo e Antonio che dopo il matrimonio si erano
trasferiti
rispettivamente nella
casa n. 2-3, e
a Taio. Fra i quattro figli maschi di Leonardo, due di nome Vittore e
Simone, portarono avanti la discendenza risiedendo nella casa n.13-14, ma
già nel 1662,
il secondo aveva lasciato Dermulo per trasferirsi a Trento. Conseguentemente i
possessi in paese vennero alienati. Qualche terreno fu acquisito da Giovanni
Battista Inama che di Simone era anche cognato (i due avevano sposato le sorelle Lorenzoni,
figlie di Giovanni Battista di Cles), per cui non è escluso, che anche una parte
di casa n. 13-14, avesse fatto parte di queste vendite. Un'altra porzione della casa di Simone, invece, ritengo fosse pervenuta alla mensa
vescovile, quindi intorno al 1680, al notaio Udalrico Barbacovi ed infine
alla figlia Anna moglie di
Giacomo Antonio Mendini.[4]
Ma nelle
disponibilità della mensa erano giunti anche alcuni beni appartenenti a Vittore Massenza,
fra i quali un terreno a Santa Giustina
(future p.f. 327-328-329) e
un'altra parte di casa n. 13-14. Di tale vendita abbiamo una testimonianza indiretta da un
documento del 1697. Nello scritto, alla cui stesura erano presenti Bartolomeo e
Valentino figlio del fu Giovanni Battista Inama, il massaro Giovanni Francesco Maffei,
assegnava, per volere
del vescovo Giovanni Michele Spaur, un "rauto grezzo e bosco"
nel luogo al Rautel, all'eremitaggio di Santa Giustina e
contestualmente defalcava il relativo valore
di 43 Ragnesi, dal debito che la famiglia del fu
Giovanni Battista Inama
aveva con la mensa, per aver acquistato - si disse - dei beni e una casa. La casa era
stata acquisita da Maddalena vedova di Giovanni Battista Inama nel 1680. Fra le
congetture, non escludo che, nelle compravendite seicentesche che hanno visto come
attrice la mensa di Trento, avesse avuto un ruolo, anche il prete Giovanni Battista Hochenhauser, attestato come proprietario di
beni nei pressi della casa (forse la stessa che nel documento fu definita "murozia
del Mafuola") e protagonista di alcune compere di terreni, guarda
caso dai fratelli Simone e Vittore Massenza.[5]
Ricapitolando quindi,
Giovanni Battista Inama aveva acquistato il primo embrione della casa n.13-14, intorno
al 1660 dai Thun e poco dopo un'altra porzione dal cognato Simone Massenza; mentre la vedova Maddalena, nel 1680 aveva
acquisito un'ulteriore porzione dalla mensa di Trento,
appartenuta in precedenza a Vittore Massenza.
Il notaio Udalrico Barbacovi invece, nel 1681 aveva acquistato dalla mensa
vescovile un'altra parte della casa n. 13-14 appartenuta a Simone.[6]
LA CASA ALLA FINE DEL SEICENTO
Dopo la morte del padre
Giovanni Battista I, la casa fu divisa fra i quattro
figli Bartolomeo, Antonio, Valentino e Michele, mentre la parte di casa che fu
di Udalrico Barbacovi, fu assegnata come dote alla figlia Anna. Quest'ultima si
era unita in matrimonio con Giacomo Antonio Mendini per cui in seguito la casa
assunse
la denominazione "Casa dei Mendini di Sopra".[7]
Schematicamente, considerando i confini enunciati in varie compravendite, è
possibile stabilire quali parti di casa appartenevano ai quattro fratelli Inama
eredi del padre
Giovanni Battista I. Per cui immaginando la casa suddivisa in
quattro
porzioni, partendo da sud-est e proseguendo in senso orario, troviamo
Antonio,
Michele, Valentino e Bartolomeo.[8]
Michele nel 1693 vendeva la sua porzione di casa per 70 Ragnesi al fratello
Antonio e si trasferiva nella vicina casa 17-18. La parte di casa di
Bartolomeo, dopo la morte avvenuta nel 1700, pervenne alle due figlie Maddalena e
Domenica che avevano preso marito rispettivamente
Pietro Antonio Mendini e
Bartolomeo Fuganti di Taio. La porzione di Maddalena fu acquisita prima del 1718
da
Giacomo Antonio Mendini che nei pressi confinava con la casa dotale della
moglie Anna Barbacovi. Domenica invece sembra avesse abitato nella sua parte di
casa assieme al marito Bartolomeo Fuganti per diversi anni a partire dal 1711.
Nel 1718 il Fuganti acquistava da
Giacomo Antonio Mendini
la parte di casa in precedenza appartenuta al cognato
Pietro Antonio Mendini. Dal matrimonio di
Bartolomeo e Domenica nacque solo una figlia, Antonia, che nel 1750 quale erede
della madre Domenica, con la presenza del padre Bartolomeo Fuganti e
del marito Giovanni Bonvicin, vendeva la casa a Dermulo a
Giovanni Battista Inama II. Il documento fu però rettificato solamente nel 1758. La casa di
Valentino dopo la sua morte avvenuta nel 1720 fu ereditata dalla figlia
Maddalena che prendeva marito nella persona di Antonio Rosetta di Taio. La casa
rimase almeno fino al 1731 in proprietà dei coniugi, per poi essere
verosimilmente alienata a
Giovanni
Battista II fu Antonio Inama. Di questa
vendita però non ci è pervenuta nessuna testimonianza documentale.
La parte di casa di Antonio che morì nel 1701 fu ereditata dai tre figli
Antonio,
Bartolomeo e
Giovanni
Battista II. Nel 1722
Antonio fu Antonio Inama,
abitante a Favogna, alienò tutti i suoi beni posseduti a Dermulo, al fratello
Giovanni
Battista II,
fatta eccezione della porzione di casa, la quale invece sarà venduta nel 1726 al
fratello
Bartolomeo
(Tomelin) per 60 Ragnesi.
Nel 1747 Bartolomeo vendette tutta
la porzione di casa in suo possesso al fratello
Giovanni
Battista II,
per il
prezzo di 105 Ragnesi.
La casa dotale di Anna Barbacovi rimase in suo possesso fino al 1731,
ma per diverso tempo fu disabitata, forse anche per le sue precarie condizioni
strutturali come appare da un documento del 1748. La non
rosea situazione finanziaria del marito
Giacomo Antonio Mendini, traspare da
molteplici documenti e trova conferme nelle vendite susseguitesi, anche a mezzo
dei suoi eredi. Infatti un documento del 1748 ci dice che l'orto e la casa,
definita con l'eloquente termine di "murozia", erano finiti in mano
alla comunità di Dermulo con il placito di Orsola, figlia del fu
Giacomo Antonio.
Il comune poi cedeva tutto a
Giovanni
Battista Inama II per il prezzo di 40 Troni.
Alla metà del Settecento, quindi, dopo le varie acquisizioni viste sopra, tutto il
caseggiato si era concentrato in mano di
Giovanni
Battista Inama II.
LA CASA DOPO LA MORTE DI GIOVANNI BATTISTA II
Alla morte di
Giovanni
Battista II
avvenuta nel 1757, nelle divisioni ereditarie
fra i figli
Giovanni Battista III,
Giovanni e
Antonio,
il caseggiato ritornò ad essere frazionato.
Cristano Emer nel 1759 stillò
un progetto divisionale che fu ufficializzato solamente nel 1777, in rogiti del
notaio Baldassarre Alfonso Bergamo di Taio. Nel 1764 Giovanni Battista III
passava a miglior vita, per cui in sua vece alle divisioni intervennero la
vedova Lucia anche come tutrice del figlio minorenne Giovanni Battista V ed
alcuni attinenti. Ecco la descrizione delle tre parti, che assieme ci permettono
di conoscere l’entità della casa a fine Settecento. Nella descrizione,
rettificata nel 1777, si era tenuto conto delle permute avvenute nel 1770 e nel
1773.
“…a basso
stalla più grande vicina alla strada comunale, la metà della caneva verso sera
poi tramezzata con la porzione toccata a Antonio, la metà del portico verso
sera, quindi passata in potere di Antonio in rogiti Widmann, salva la servitù
del fu Giovanni Battista e ora a suo figlio di passare per andare e venire dalla
caneva e porvi ordegni e altro presso la caneva. L’andito presso la porta
dabasso in faccia all’uscio di sopra della stalla del medesimo minore ora da sua
madre coperto. Fino alla croce fatta sulla centa, divenuto ora muro maestro
verso la strada comunale, qual andito esiste dalla pianta a basso fino all’aria
sopra il coperto con libertà di fabbricarvi entro questo una camera o stufa con
uscio sul somasso in riga all’accettato laudo. Una particella di corte ossia
sito fuori dalla porta grande che porta al somasso aderente alla strada. Il
quale sito poi pervenne ad Antonio in rogiti Widmann, una corte presso la strada
comunale con porzione di centa ed apresso la portaggia da basso a tutti e tre
comune, per entrare nelle porzioni da basso di Antonio e Giovanni e poi
rinunciate al minore Giovanni Battista in rogiti Widmann …. Tutti gli anditi
ortivi con tocchi di centa verso mezzodì e sera e con vigne e arbori. In alto
cucina verso mattina sopra la stalla del fu Giovanni Battista e ora del suo
erede minore, con coperto fino all’aria e pezzo di somasso verso la strada
comune e presso la sua cucina, ed andito destinato a detta fabbrica con sue
stradughe e coperti, il terzo del ponte per entrarvi in detto somasso, un
stabbio verso settentrione per fare camere.”
“…a basso una
stalla aderente a quella del minore con una porzione di corte in faccia a detta
stalla, la cui corte fu data in permuta al minore in rogiti Widmann, la metà del
portico verso il ponte con servitù del fu Giovanni Battista per andare alla
caneva propria. La metà della caneva, cioè quella di sopra l’andito al di fuori
verso la strada comunale dalla croce in su col sito sopra e coperto, una
porzione di andito al di fuori presso la porta grande conforme toccò al minore.
In alto la terza parte della porta, il terzo del somasso, terzo dei stradugari,
la cucina fu una volta stufa, sopra la propria stalla, anditi con libertà di
fabbricarvi una camera presso lo stabbio del minore, un orto con la centa di
sotto confinante alla parte di Giovanni e un prato annesso con vigne, salva la
servitù per lo stesso, agli eredi di Giuseppe Massenza per entrare in casa e
anche a Romedio Mendini se gli compete, altrimenti no”.
“….un revolto
al di là della stalla con l’obbligo alle altre parti di accomodare lo stesso che
minaccia caduta e fare assieme le mangiatoie se fosse destinato a stalla.
Revoltelli di la dentro a quello e entro in cima è posseduto da Antonio in
rogiti Widmann, porzione di corte avanti il revolto, tocco di murochia
rinunciata al minore, andito presso la porta a mano sinistra nell’uscire dalla
porta grande poi dato al minore, poi pervenuto a Antonio per permuta, il quale
fabbricò sopra lo stabbio, come al presente si vede. In alto il terzo della
porta e del somasso allora indiviso, il terzo delle stradughe, su cui fabbricò
una cameretta, una cucinetta sopra il revolto a se toccato, un salettino al di
fuori, che ora dalla madre Lucia, come compratrice, è ridotto in altra fabbrica.
E l’orto di mezzo ora posseduto dal minore”.
Ogni parte avrebbe potuto aprire un uscio sul
somasso per le proprie camere, e
avrebbe potuto alzare il tetto sopra le proprie parti assegnate.
Giovanni
e
Giovanni Battista III
sposavano le due sorelle
Cecilia
e
Lucia,
figlie di
Vittore Inama
che avevano ereditato dal padre una porzione di
casa alla Crosara.
Nel 1770
Giovanni Inama
cedette a
Lucia,
vedova di suo fratello
Giovanni Battista III,
la sua parte di casa al di là del rì, con l’orto e vari anditi, ricevendo
in permuta dalla cognata la sua porzione nella
casa alla Crosara.
La parte ceduta da
Giovanni
nella casa al di là del rì, era composta da: “a basso in tre revolti,….
una stanza fatta in parte a revolto in parte a soffitta, un pezzo di cortile e
anditi, l’orto con vigne e altri arbori. In alto nella sua parte di ponte, nella
comunione del somasso e stradughe come da dette divisioni, una cucina a revolto
con forno, un andito al pari della cucina, e coperto fino all’aria con la
servitù di poter passare per l’andito ossia orto di
Antonio Inama
per portarsi ai suddetti revolti”.
Giovanni
e
Cecilia
quindi, si trasferirono nella
casa alla Crosara
e non avranno più interessi nella casa al di là del rì.
Nel 1773
Lucia
vedova di
Giovanni Battista Inama III,
cedeva al cognato
Antonio Inama,
una porzione di portico per poter ingrandire la stalla; riservandosi
però, il diritto di passare per la cantina della loro casa; una porzione
di corte, fatto salvo il passo con pedoni e carri, e la sua parte di
cortile al di là del ponte fino
all’orto di
Antonio.
Ancora gli cedette la strada che passava per il cortile ed infine un piccolo
locale posto all'interno della cantina di
Antonio,
che in parte era proprietà di
Lucia,
per averlo acquisito dal cognato
Giovanni.
Antonio
in cambio cedette una parte di
corte di sua proprietà verso sera con l’obbligo di spostare l’uscio nel
portico che portava alla stalla e di pagare 39 Ragnesi a
Lucia,
secondo la stima fatta dai periti muratori
Silvestro Endrizzi
e Nicolò Pellegrini. In questo modo
Antonio
poteva costruire, per la misura di quanto era larga la propria cucina, un balcone
sopra la corte che gli era stata appena ceduta, senza però poter gettare
immondizie o acqua. In alternativa al balcone avrebbe potuto costruire un
forno. Poco dopo le sopra esposte divisioni erano sorti degli screzi fra Lucia,
come rappresentante figlio
Giovanni Battista V, da una parte, e il cognato
Antonio e il genero Giovanni Mendini dall’altra, per cui nel 1774 si affidarono
a Francesco Cristoforetti di Taio e a Giacomo Moggio di Cles eletti rispettivi
arbitri per trovare una soluzione. Di conseguenza furono stillati alcuni punti
che i litiganti si impegnarono a rispettare. Particolarmente si decise che
- il somasso dovesse spettare per 2/3 a detta vedova e 1/3 a Antonio
- per la scala volante posta da Antonio
sul somasso per portarsi alla sua camera, possa rimanere e rimanere in mezzo
all’uscio della camera posta di sotto. Deve levarla solo per non impedire il
transito di carri. Antonio deve otturare la finestra aperta nella camera in alto.
- che circa l’uscio fatto sul somasso
sopra il portico, possa rimanere, ma anche il diritto che se Lucia fabbrica una
nuova camera, deve lasciar aprire un uscio pure a lei
- riguardo alla fabbrica nuova di Antonio,
deve ritirarsi un po’ da quanto fatto
- Antonio deve spianare la terra da basso
perché Lucia ha il passo. Per quanto riguarda la piantagione per macinare
materie da fare olio, può rimanere, però quando passa la vedova per portarsi
alla sua caneva, si deve fermare il giro dell’accennato edificio
- perché non entri acqua dalla porta aperta da Antonio verso mattina presso la
strada comunale, a danno di revolti di Lucia, Antonio deve mettere dei ripari
- per il sito fuori dalla porta grande per entrare in casa venduto dalla vedova
a Antonio può essere occupato da Antonio ma non ostacolare la vedova che si vuol
portare a basso nel suo portico e revolti
- Infine i due paghino in proporzione gli arbitri 2/3 ad Antonio Inama e 1/3
alla vedova Lucia.
I problemi fra le due parti comunque non si risolsero, anzi, tre anni dopo si
continuava ancora a litigare; a ciò aveva contribuito la particolare localizzazione
della proprietà dei vari locali, dovuta principalmente a permute avvenute negli
anni precedenti, per le quali, risultavano locali e anditi distribuiti senza
soluzione di continuità in tutto il caseggiato. Per tale motivo, nella primavera
del 1777 fu necessaria una nuova composizione, con la quale si cercò, per quanto
possibile, di raggruppare le proprietà in due blocchi. Quindi
Lucia
trasferì ad
Antonio
la sua porzione di appartamento verso la strada comunale, con gli anditi
sopra e una porzione di somasso fino
alla metà. Il tutto formato da: “una
cucina a rivolto di Passi 15, il volto Passi 7, il somasso Passi 5, il forno, il
secchiaro, il focolare e camino, due finestre una di pietra ferata con
cristalli, uscio di pietra e un ponticello, due anelli di ferro nel volto, il
sito sopra la cucina con suo coperto di Passi 10, i muri fuori della cucina, il
coperto sopra quelli Passi 8, il somasso grande Passi 4 per un totale di Ragnesi
119:0:6”.
Antonio
le diede in cambio le due camere esistenti oltre la metà
del somasso, sterquilinio, spleuze
porzione di ponte così descritta: “una camera a soffitta sul somasso Passi 8, il somasso di quella Passi 2,
soffitta, finestra e uscio, altra cameretta di sopra di muri Passi 5, soffitta
finestrella, armaro e uscio, somassetto di sopra e coperto, scala di legno, un
terzo della porta del ponte di pietra Ragnesi 8:1:6, il sito fuori della porta
fino al muro della fabbrica nuova di Antonio, il coperto sopra il sito Per un
totale di Ragnesi 70:0:6”. La stima dei locali fu effettuata dai
murari Giovanni Leita di Cles e
Giovanni Rossi di Piano. In questo modo, l’appartamento superiore verso gli orti
apparteneva tutto a Lucia e di conseguenza quello verso la strada comunale,
tutto ad
Antonio. Quest’ultimo avrebbe dovuto dare a Lucia 49 Ragnesi di
conguaglio. Se Antonio avesse voluto abitare l’appartamento superiore, avrebbe
dovuto costruirsi a sue spese il ponte
sulla sua metà di somasso. Entrambe le
parti avrebbero potuto alzare il tetto, Antonio verso la strada comunale, Lucia
verso gli orti. A Lucia fu concesso di cuocere il pane nel forno della cucina di
Antonio
per lo spazio di un anno; inoltre, la porta grande del ponte, che fino ad
allora proprietà esclusiva di Lucia, sarebbe appartenuta per un terzo ad
Antonio. Nell’accordo viene menzionata una “fabbrica nuova” intrapresa da
Antonio
che corrispondeva, almeno in parte, alla futura casa
28.
[9]
Le discordie fra Lucia e il cognato
Antonio
comunque non si placarono,
proseguendo ancora nel 1778 e interessando, questa volta, la costruzione del tetto
da parte di Antonio, per il quale Lucia pretese che la
colm, facesse da confine fra i due e
altre piccole cose. Nel 1783 Lucia intimò ad
Antonio
di non cambiare il lato, da
cui le ali del tetto dello stabbio dovevano spiovere, per fare in modo che
l’acqua piovana cadesse per metà verso gli orti e per l’altra metà sul sito di
Antonio, presso la strada comune.
Dal matrimonio di
Antonio Inama
con Caterina Fedrigoni, nacquero due figlie,
Dorotea e Maria Caterina. Mentre la prima sposando Tommaso Paoli di Nanno lasciò
il paese, Maria Caterina convolata a nozze
nel 1768
con
Giovanni Mendini, visse nella casa paterna.
Antonio
nel suo testamento del 1771, poi sostituito senza importanti variazioni, da
quello redatto nel 1779, designava la figlia
Maria Caterina
moglie di
Giovanni Mendini
erede di tutta la sua sostanza e quindi anche della casa, disponendo una somma
in denaro per l'altra figlia Dorotea. Si trattava della parte di casa posta a
sud-ovest, confinante con la strada comunale, più tardi numerata con il 14, ma
anche della futura casa
28.
Nel catasto teresiano del 1780 la porzione di casa di
Antonio Inama,
benchè ancora in vita, (morì intorno al 1794) figurava a nome del genero
Giovanni Mendini,
con 24 Pertiche di superficie, così come quello catalogato come orto della
superficie di 66 Pertiche ma che in realtà era già stato trasformato, almeno in
parte, in stabbio, ossia la casa
28.
LA CASA
NELL'OTTOCENTO
LA CASA N.14
Giovanni Mendini
redasse il suo testamento nel 1802 e, non avendo discendenti, lasciò la sua metà
di casa, che lui affermava di aver "in parte ricevuto dal suocero e in parte
comprato e migliorato", per la metà alla moglie
Maria Caterina
e per l'altra metà al suo erede, cioè al fratello
Matteo Mendini.
Matteo però, non entrò mai in possesso della casa in questione, ma ricevette altri
beni e del denaro. La casa invece dopo la morte di Maria Caterina, avvenuta circa
nel 1804, perverrà in eredità al nipote Tommaso, figlio della sorella Dorotea e
di Tommaso Paoli di Nanno, il quale si trasferirà a Dermulo e abiterà nella
suddetta casa, almeno dal 1805 fino a circa il 1821. Verso la fine di quell’anno,
infatti, Tommaso vendeva la casa detta “al di la del rivo” a Maria, vedova del fu
Giacomo Endrizzi,
tutrice dei suoi figli minori Anna, Pietro, Mattia e Romedio. La casa confinava
a est e a sud con la strada comunale e a ovest con Elisabetta vedova di
Giovanni Battista Inama V; il prezzo fu stabilito in 500 Fiorini. (Il Paoli era divenuto
proprietario pure della futura casa n.
28 che poi assegnò a sua moglie Teresa).
Nella casa allora marcata con il 9, qualche anno più tardi troveranno posto
tutti e tre i figli maschi del fu
Giacomo Endrizzi:
Mattia,
Romedio
e
Pietro
con le rispettive famiglie. Sicuramente i locali a disposizione di ognuno erano
pochi e abbastanza angusti. Dai confini enunciati nei numerosi documenti
riguardanti questa casa, possiamo localizzare i tre nuclei nel seguente modo:
Mattia
occupava la parte più estrema verso sud, confinante cioè con la strada comunale;
Pietro
quella più a settentrione confinante a nord con
Giovanni Battista Inama
e
Romedio
quella centrale. La parte di Mattia è così descritta nel 1829, quando la casa è
oggetto di assicurazione di dote della moglie Maria Zadra: "una cantina, un saletto e
anditi sopra questi fino all’aria cui confina: 1 Romedio Endrizzi, 2 Pietro
Endrizzi, 3-4 gli sudetti con anditi e somasso".
Nel 1845 la casa è menzionata per lo stesso scopo, fungendo da assicurazione per
la seconda moglie di Mattia, Marianna Profaizer. Nell'occasione si elencavano
solo i confini, anche se in modo incompleto: "1
strada comunale, 2 Batta Inama, 3 Romedio
Mendini".
Pietro
abiterà per poco la sua parte, in quanto già nel 1830 alloggiava come
manente nella casa di Antonio Martini,
da dove poi nel 1838 si trasferiva a Banco. La parte di casa di Pietro, numerata
con il 14, nel 1836 verrà acquistata dai coniugi
Teresa
e
Giovanni Battista Inama VI.
La parte di
Mattia,
passò dopo la sua morte al figlio
Giovanni
che trascorse gli ultimi anni della sua vita da celibe, nella
casa di
Arcangelo Inama,
al quale fu affidato a spese del comune per non essere in grado di mantenersi.
La sua casa andò all'incanto e fu aggiudicata nel 1893 a
Camillo Inama,
per il prezzo di 151 Fiorini. L'esigua abitazione era composta: al piano terreno
da una stalla, secondo piano da una stufa e una cucina. Dobbiamo arguire che la porzione
appena descritta era corrispondente a quanto posseduto dal padre
Mattia,
fatta eccezione di un piccolo avvolto adiacente alla cantina di
Romedio Mendini,
ceduto nel 1868 a quest'ultimo.
Romedio Endrizzi,
altro fratello, non abitò con continuità la sua parte di casa, nel 1841 si
trovava con la moglie Teresa a Milano, dove erano nati almeno due dei suoi sei
figli, e dove rimase per circa cinque anni. Dopo il matrimonio avvenuto nel 1853
in una parte della casa abitava il primogenito
Domenico con la moglie Maria
Giuliani. Dopo il 1858 la casa fu lasciata vuota in quanto Domenico
fu imprigionato a seguito dell'efferato crimine commesso ai danni di Giovanni
Battista Battocletti, mentre la vedova Maria emigrò con i figli in Austria. Alla
morte di
Romedio Endrizzi,
la casa pervenne in proprietà al figlio
Francesco,
l'unico presente a Dermulo, in quanto gli altri da molto tempo e per vari motivi
erano assenti. Ma nel 1880 pure
Francesco
lasciò il paese per raggiungere l'Austria e successivamente emigrare in America.
Francesco
aveva lasciato in patria parecchi debiti e, per tale motivo,
Camillo Inama
nel 1899 si aggiudicò per l'importo di 280 Fiorini, la casa che era stata posta
all'asta. La casa consisteva nei seguenti anditi: a piano terra una staletta
e un voltino; al primo piano: cucina e stufa; al secondo piano: camera e antane.[11]
La casa fu poi occupata dai tre figli di
Camillo: Amadio, Luigi e Giovanni
Battista con le rispettive famiglie. Luigi poi emigrò in America lasciando la
casa ai fratelli.
LA CASA N.13
Nel più volte citato catasto del 1780, la parte più ampia della casa al di là
del rì, con una superficie di ben 114 Pertiche, era appannaggio di
Giovanni Battista Inama V.
La consistenza della proprietà in mano dei discendenti di
Giovanni Battista,
come vedremo, varierà molto nel proseguo degli anni con acquisti, permute,
vendite e riacquisti. Ci fu un periodo dove furono perfino estromessi dalla
casa, per poi arrivare fino ai giorni nostri e ritrovarli proprietari
dell'intero caseggiato.
Nel 1827 la parte di
Giovanni Battista Inama VI,
era ancora integra come pervenutagli in eredità dal padre
Giovanni Battista V,
quindi con la stessa superficie rilevata nel 1780 e confinante a est con la
strada e lo stabbio, a sud con gli
eredi
Endrizzi,
a ovest con l'orto e a nord con l’orto che fu di Tommaso Paoli. Nel 1828
Giovanni Battista VI
per assicurare i beni dotali della moglie
Teresa Zambiasi,
le cedeva, oltre a due terreni, anche una parte di casa costituita dai seguenti
locali: al pianterreno stalla e portico annesso, la corte al coperto, la
caneva; al secondo piano: la stufa, la cucina, e metà somasso con anditi sopra
la stufa e cucina fino all’aria. Ed inoltre un orto confinante con la parte
di casa appena ceduta, la qual casa dai confini descritti si poteva individuare
come una porzione posta a sud-ovest della proprietà, che confinava a est con
altra parte dello stesso
Giovanni Battista VI,
a sud gli eredi di
Giacomo Endrizzi
e a ovest e a nord con l’orto. La casa che inizialmente recava il n. 10, nel 1833 era marcata con il 13.
Nel 1836
Teresa
e Giovanni Battista Inama VI permutavano con
Romedio Mendini,
tutta la casa che in quel momento era in loro possesso, ovvero le 114 Pertiche
relative alla casa n. 13, ricevendo in cambio un terreno alle Late e l'utile
dominio su un terreno alle Marzole, livello Thun. La casa fu così descritta: "casa
di muri murata e di legnami costruita da terra fino all’aria che comprende al
pian terreno 2 avvolti massicci e un altro che serve da caneva dei venditori.
Riservandosi il portico tutto il resto sia al primo che al secondo piano è
compreso nella vendita della casa. La qual casa confina: 1
Vittore Tamè
e anditi di altri che servono di accesso per il ponte, 2 fratelli
Endrizzi,
3 l’orto sottodescritto, 4
Vittore Tamè
e detto orto". Romedio in quel
momento era sprovvisto di propria abitazione e contemporaneamente Giovanni
Battista era in difficoltà economiche, per cui le due esigenze si incontrarono.
Nello stesso giorno i coniugi Inama, acquistavano da Pietro Endrizzi un piccolo
appartamento nella casa n. 14, dove poi andarono ad abitare. La casa acquisita
all'Endrizzi fu così descritta: "casa
a Dermulo, di muri murata e di legnami costruita da terra fino all’aria che
confina 1 Mattia Endrizzi, 2 strada comune 3, i giugali compratori 4 Antonio
Endrizzi".[10]
Nel 1838
Romedio
trasferiva in proprietà della moglie
Lucia Inama
diversi suoi terreni e la suddetta casa. In un
prospetto
redatto dal capocomune di Dermulo nel 1836, nella riga in elenco, relativa alla casa 13-14, non si
fa menzione di
Giovanni Battista Inama
come proprietario. Il fatto risulta un po' anomalo perchè al momento della
stesura del succitato elenco, i coniugi Teresa e
Giovanni Battista Inama,
avrebbero dovuto possedere, e infatti possedevano, l'abitazione acquistata da
Pietro
fu
Giacomo Endrizzi.
Nel 1859 moriva
Giovanni Battista VI
e la casa nel 1861 veniva ereditata dalla moglie
Teresa,
avendo le figlie rinunciato all'eredità. Alla morte di
Teresa
avvenuta nel dicembre del 1874, la casa pervenne in eredità alla figlia
Elisabetta,
che già nel 1867 era convolata a nozze con
Camillo Inama.
Camillo dopo il matrimonio aveva lasciato la casa paterna
n. 2-3,
per abitare nella casa della moglie
Elisabetta.
Nel 1899
Camillo
acquistava per la somma di 280 Fiorini, la casa che era di
Francesco Endrizzi,
la quale era stata pignorata e messa all'asta su istanza dei molti creditori.
Nel 1903
Camillo
cedeva ai suoi figli
Amadio
e
Battista
la casa ereditata, dalla rispettivamente moglie e madre
Elisabetta.
La casa n. 13, dobbiamo supporre che nel 1865, alla morte di
Lucia Inama,
sia pervenuta in eredità al marito
Romedio Mendini.
Nel 1879 alla morte di
Romedio,
venne divisa fra i suoi figli
Giuseppe
e
Tobia.
Al primo fu assegnata la parte più a nord (porzione II), confinante con
don Domenico Tamè,
Romedio Endrizzi,
la porzione del fratello
Tobia
e il comune, così descritta: Al piano terra: cantina nuova e vecchia,
il portico restante dopo assegnata la porzione alla parte prima, che sarà diviso
da muro comune e con il diritto di farsi l’uscio per accedere a questi locali,
sotto la scala che porta al primo piano. Orto diviso dalla prima porzione, fino
alle macerie del Comune. La scala nominata che è in comune deve essere costruita
entro il 2 maggio 1880. Al primo piano: somasso porta d’ingresso e
battenti in comune alla prima porzione, cesso attuale e camerone nuovo a
settentrione col diritto di farsi l’uscio sul somasso dietro la porta
d’ingresso. Al secondo piano: altane, sottotetto e tetto fino
all’aria, poste sopra il camerone nuovo sopra descritto e sopra il somasso
comune. Il voltino massiccio da farsi sopra il portico di questa porzione dovrà
essere fatto a comuni spese entro due anni. Di questa casa diverrà
proprietaria la figlia unica di
Giuseppe
di nome
Rosalia
che poi venderà a Dario Inama.
A
Tobia
invece toccò la parte sud confinante a est e a nord con la porzione del fratello
Giuseppe,
a sud con
Giovanni Endrizzi
e a ovest con la strada, (porzione I) così formata: Al piano terra:
stalla o portico a sera per farsi la cantina, corte e orto a mezzodì e a sera
diviso dall’altra porzione con termini segnati con croce. Al primo piano:
stufa e cucina a sera, saletto in comunione con la porzione II, e la scala
che dal piano terra mette al primo piano in comunione con la porzione II. Questa
scala sarà collocata lungo la parete nord della casa e monterà sul saletto
comune posto fra la cucina assegnata a questa porzione e la porzione II. Siccome
il saletto è mancante di avvolto, sarà costruito a spese comuni a modo di volto
in piano. Al secondo piano: camerone sopra la stuffa e cucina
propria di questa porzione, altane, sottotetto e tetto sovrapostovi fino
all’aria. Come pure altane, sottotetto e tetto sopra il somasso, fino al muro
che divide il camerone nuovo dal saletto, e tale muro resta in comune e
divisorio con la seconda porzione.
La scala che dal primo porta al secondo piano, sarà collocata nel saletto
comune, dopo che la cantinellata in confine con la cucina, sarà trasportata
verso la cucina stessa, fino allo spigolo dell’uscio delle stessa, la quale
scala poi resterà in comune con la porzione II. Questa porzione avrà diritto a
farsi l’uscio nel muro settentrionale al piede della scala che porta al primo
piano, con diritto di passo per recarsi alla cantina assegnatale, come pure sarà
fatta una strada che percorre la linea di confine da sera a mattina partendo
dalla strada comunale e portandosi alla scala del piano terra. La strada resta
comune per passaggio con la seconda porzione.
Nella casa abiteranno i due figli di
Tobia:
Emilia
che era sarta e soprannominata
Sécia,
morì nubile nel 1945 ed
Angelo
detto
Belgién,
pure da ammogliare, che morì nel 1962. La casa era nel frattempo passata all'Ente
Comunale di Assistenza (ECA) di Cles il quale la cedette ad Amadio Inama.
PERSONE EFFETTIVAMENTE PRESENTI NELLA CASA | |||||
Giovanni Battista Inama |
Lucia Inama (v) |
casa 13 |
casa
13 |
casa 13 |
|
Maddalena Lorenzoni (m) |
Antonio Inama (f) |
Gio.Batta Inama (f) |
Maria Tamè (v) |
||
Valentino Inama (f) |
Bartolomeo Inama (f) |
Teresa Zambiasi (m) |
Francesca Zamboni (m) |
|
|
Bartolomeo Inama (f) |
Gio.Batta Inama (f) |
Elisabetta Inama (f) |
Emilia Mendini (f) |
||
Giobatta Inama (f) |
Nicolò Inama (f) |
Elisabetta Zini (M) |
Virginia Mendini (f) |
Emilia Mendini (f) |
|
|
Marino Inama (f) |
Antonio Inama (s) |
|
Angelo Mendini (f) |
|
Michele Inama (f) |
|
|
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|
|
Antonio Inama (f) |
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casa 14 |
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Agata Inama (f) |
Caterina
Geronimi
(m) |
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|
Maria Tamè (m) |
|
|
Maddalena Inama (f) |
|
casa
14 |
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Rosa Stratta (m) |
|
|
|
Maria Mattevi (v) |
casa 14 |
Severino Inama (f) |
|
|
Romedio Endrizzi (f) |
Amedeo Inama (f) |
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Domenica Inama (f) |
|
|
Teresa Mendini (m) |
Eligia Inama (f) |
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|
|
Alberto Inama (f) |
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Maria Giuliani (v) |
Romeo Inama (f) |
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Maria Zadra (m) |
Rosina Endrizzi (f) |
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Marianna Endrizzi (f) |
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Melania Endrizzi (f) |
Carolina Mendini (m) |
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Dario Inama (f) |
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Francesco Endrizzi |
Rita Inama (f) |
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Costanza Rosetti (m) |
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Irene Endrizzi (f) |
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Rachele Endrizzi (f) |
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Maria Rizzi (v) |
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Giovanni Endrizzi ( f) |
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Elisabetta Inama (m) |
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Amadio Inama (f) |
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Luigi Inama (f) |
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Gio.Batta Inama (f) |
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Il nominativo sottolineato corrisponde al capofamiglia. Le seguenti abbreviazioni indicano i rapporti di parentela con il nome sottolineato: m sta per moglie, f. per figlio/a, fr per fratello, S per sorella, v per vedovo/a, p per padre, M per madre, s per suocero/a, n per nipote, z per zio, N per nuora e c per cognato/a. Per il 1780, i nomi dei proprietari provengono dal Catasto teresiano presso l’A.S.T. Per il 1921 si è preso in considerazione il censimento di tale anno presso l’A.C.D. Inoltre, e solo per questo anno, sono state evidenziate le persone assenti con la lettera a. Per gli anni rimanenti i nomi dei capifamiglia e/o il numero degli occupanti la casa, sono stati desunti da vari documenti consultati presso A.C.D., A.P.T. e A.D.T. |
[1] L'ipotesi di identità fra il maso di Lanzono e la futura casa n. 13-14, derivava principalmente, oltre che dal collegamento genealogico fra il primo locatario Giovanni e i successivi possessori, ossia i Gatta, dalla presunta continuità di possesso da parte della mensa, fino a dopo la metà del Seicento. Tali ipotesi però, si sono poi scontrate con altre evidenze, ovvero la mancanza di qualsiasi riferimento a questi beni, negli elenchi delle proprietà gafforiali a Dermulo, riferiti agli anni 1620/1640. Questo potrebbe significare due cose, in alternativa una all'altra: i titoli che dimostravano la proprietà della mensa erano andati persi od obliati, oppure, i Thun o forse già i Gatta, avevano acquistato i beni dalla mensa. Che la mensa in tempi successivi fosse apparsa come proprietaria di parte di questi beni è da considerarsi un evento casuale.
[2] Non conosciamo i nomi e quindi nemmeno se erano da attribuire alla linea di Castel Thun o a quella di Castel Bragher, poichè sono menzionati in entrambi i casi come "ill. dominus de Thono". Infatti fra questi ultimi e i Gatta si era instaurato un buon rapporto di fiducia, palesato anche dalla nomina ad amministratore dei beni Thun posti nel circondario di Trento, di Giuseppe figlio di Nicolò Gatta.
[3] Un documento del 1713, riportato in uno scritto di Vigilio Inama, sulla storia della famiglia, tratta del rinnovo di investitura ad Alberto Inama di Fondo di un broilo dei Thun localizzato, si dice, "sotto la casa del feudatario", la cui prima investitura, era stata fatta a favore di Bartolomeo Inama, padre del suddetto Alberto, nel 1654. Se la trascrizione è esatta, la casa del feudatario non poteva che essere la futura 13-14 e 28, perchè a Dermulo i Thun non possedevano all'epoca nessuna dimora.
[4] Sono stati proprio i terreni alla Croce e al Bertusel pervenuti assieme alla casa, con i loro proprietari e confinanti che mi hanno illuminato e permesso di chiudere il cerchio indiziario in quanto riconducibili alla discendenza di Simone Massenza II.
[5] Giovanni Battista Hochenhauser di Merano tra il 1650 e 1660 figura come acquirente di alcuni terreni a Dermulo. Nei tre atti di compravendita in parola, il religioso risultava già in possesso di beni confinanti a quello acquistato. La sua presenza in valle è documentata nel 1639 come cappellano a Sanzeno e, venti anni più tardi, come beneficiato a Sfruz. Altro per ora non possiamo aggiungere.
[6] La prova che il notaio Barbacovi, già nel 1681, era proprietario della casa, ci viene fornita da un altro documento nel quale il notaio compariva confinante con il broilo di Concio Massenza, notoriamente collocato nelle vicinanze della futura casa n.13-14. Non solo, la casa nei primi anni del Settecento era riconosciuta appartenere ad Anna Barbacovi figlia di Udalrico e moglie di Giacomo Antonio Mendini.
[7] La stessa designazione a volte era utilizzata per distinguere la casa n. 20-21 da quella detta "Casa dei Mendini di Sotto" cioè la n.22. Ciò potrebbe far sorgere qualche dubbio sull’identità della casa, tuttavia, dal confronto delle confinazioni in diversi documenti, è emerso in modo inequivocabile che si trattava di una parte a nord della casa 13-14, alla quale era pertinente anche una casetta diroccata poi conglobata nella casa n. 28. Essa assieme agli orti adiacenti fu oggetto in almeno tre occasioni di assicurazione in altrettante compravendite. La casa diroccata (murozia) in quegli anni si presentava isolata e circondata sui quattro lati da terreni.
[8] Naturalmente la suddivisione non era così semplice, c'erano parti in comune, locali disposti in altre porzioni, in generale quindi il possesso di un blocco di abitazione dalle fondamenta al tetto era solo teorico.
[9] Nella zona, nei documenti posteriori al 1750 non appare tra proprietari e confinanti nessuna persona estranea ai discendenti di Giovanni Battista II, per cui la futura casa 28 (non con le dimensioni odierne) apparteneva giocoforza a loro. E’ plausibile che Antonio Inama avesse inglobato nello stabbio da lui costruito, il sedime della casa detta del Mafuola, che fu degli eredi di Giacomo Antonio Mendini, appartenuto da ultimo alla comunità di Dermulo e infine acquistato da Giovanni Battista Inama II, padre di Antonio nel 1748.
[10] Probabilmente si trattava di Romedio Endrizzi, in quanto Antonio Endrizzi non trova riscontri in questa casa.
[11]
In realtà nel 1885 risulta un contratto di
vendita di tutta la sostanza da parte di Francesco Endrizzi e della moglie
Costanza Rosetti, questa in rappresentanza del suocero Romedio, a Costante
figlio di Costante Sarcletti di Casez. La compravendita, il cui contenuto
riporto qui di seguito, per qualche motivo non si perfezionò.
Sanzeno 15.12.1885. Costante di Costante
Sarcletti di Casez compera da Francesco e Romedio Endrizzi, quest’ultimo
rappresentato da Costanza moglie di Francesco i seguenti beni: Casa rustica al
n. 14 cui 1 Camillo Inama 2 Giovanni Endrizzi, 3 Giuseppe Mendini, 4 Tobia
Mendini. Arativo aderente alla suddetta casa cui 1 strada comunale, 2 Giuseppe
Mendini, 3 Pietro Inama 4 strada erariale. Vignale detto alle Oltoline (Voltoline)
cui 1 Widmann, 2 Pietro Mascotti, 3 Domenico Inama di Taio, 4 Giacomo Endrizzi
Arativo e prativo stesse pertinenze l. detto Tomellin cui 1 strada comunale, 2
Giacomo Inama, 3 Pietro Inama, 4 Strada erariale. (Era il Raut ereditato
dalle Tomelline) Beni mobili: Una macchina da calzolaio usata in buono stato, 3
letti di piuma,(2 grandi, 1 piccolo), 3 capezzali e 6 guaciali usati, 18
lenzuoli di canape e lino, 4 pagliarizzi da letto a colori usati, 5 foderette
biache usate, 2 lettiere (1 a lustro e 1 colorata), una tavola e un tavolino, 10
sedie di legno foglia usate, 3 scani uno di paglia e 2 solidi usati, 9 cornici
di santi, 10 quadri, 14 quadri nuovi con cornici, 1 cassettino con guanciale, 2
armadi (1 colorito e 1 dalle farine), una credenza, 2 paioli di rame dal busato
usati, 4 padelle grandi di ferro, 2 paioli piccioli (1 di rame e 1 di ferro)
usati, 8 padelle di ottone,(2 grandi e 6 piccole) tutte usate, 2 celle di rame
(1 grande e 1 piccola) tutte usate, 1 lavezo di ferro fuso usato, 8 cazze di
ferro (4 forate e 4 liscie), 2 cazzottine d’ottone e una di ferro con busi, 6
secchie (5 di legno e una di banda) usate, 3 pallottine di ferro, 2 brente,
un’orna, e una teza usate, un orologio vecchio, una cassa di noce antica, un
cassabanco di ciliegio, 4 luminiere, una lanterna, 4 coperci di banda usati, una
segosta di ferro, un masnino e brustolino dal caffè, 2 vasetti dal caffè e
zucaro usati, 3 piatti neri, 3 piatti bianchi, 3 pignate grande e 2 piciole, una
moja e una palotta dal fuoco, uno staio dal grano e un vallo, un caretto a due
ruote usato, una banca della paglia usata, 3 mannaie di ferro vecchie, 2 fleri,
una falce, 2 restrelli, 5 sarchi di ferro usati, una zappa, un picco di ferro
usati, un badille, una vanga, 2 ranconi, 3 podarolli, un ferro per tagliare la
paglia, un pallo di ferro, una anzi due banche per lavorare i manichi da frusta,
un aspi e un vindol, una cesta di salice, due ? ovale? di legno, una ruota da
filare, uno specchio, un crocifisso ed un acquasantello, 2 sopresse, 3 fiaschi
grandi dall’acquavita, 4 fiaschi neri (3 da litro e 1 da ½ litro), e 3 da ¼ , 3
bicchieri e 2 sedicini da litro tutti usati. Tutti i beni sopracitati sono
venduti per liberi e franchi a parte un’ipoteca a favore di Filippo Chilovi, del
Comune di Dermulo e di Vittore Chistè. Il prezzo patuito fu di 650 Fiorini. In
sconto di questi il compratore paga 157 Fiorini a Filippo Chilovi radicati sulla
casa e arativo ivi aderente, 160 Fiorini Comune di Dermulo radicati sul vignale
alle Voltoline e terreno al Tomelin e 50 Fiorini a Vittore Chistè radicato sul
terreno alle Voltoline. Tutte queste accollazioni fanno un capitale di 367
Fiorini, i rimanenti 283 Fiorini vengono sborsati dal Sarcletti nelle mani dei
venditori.
Case numero: 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29-48
Case Mappa delle case Introduzione Foto della Casa n. 13-14 Schema della Casa n. 13-14