LA CASA N° 28 - Casa del Mafuola?
 

(Oggi Via del Borgo n. 2) P.E. 36

 

 

La futura casa 28 è nata dall’inglobamento del sedime di una precedente piccola costruzione, in uno stabbio che, a sua volta, fu poi trasformato in casa di abitazione dopo la seconda metà dell’Ottocento. Nella parte a nord infatti, esisteva una casetta isolata che già nel Seicento era ridotta in pessime condizioni. Tale costruzione in un documento del 1660 veniva denominata “murozia del Mafuola" e molto probabilmente era adibita a rustico pertinente alla vicina casa 13-14. Ho ragione di ritenere che nell'ultimo ventennio del Seicento la “murozia del Mafuola" fosse appartenuta al notaio Udalrico Barbacovi di Taio, possessore della porzione nord-est della casa n. 13-14. Dopo il 1697 i possessi del Barbacovi, transitarono in qualità di beni dotali alla figlia Anna, moglie di Giacomo Antonio Mendini. Nel 1748 l'orto e la casa, definita con l'eloquente termine di "murozia", pervennero, per sanare alcuni debiti, alla comunità di Dermulo con il placito di Orsola Mendini, figlia del fu Giacomo Antonio. Il comune poi cedeva il tutto a Giovanni Battista Inama II per il prezzo di 40 Troni, e pertanto l’Inama divenne l'unico proprietario della casa n. 13-14 e delle sue pertinenze che comprendevano la casetta diroccata e il sedime della futura casa n. 28.
Alla morte di
Giovanni Battista II, la casa fu suddivisa fra i tre figli, Giovanni Battista III, Antonio e Giovanni. Fu proprio a quest'ultimo che toccò la parte nord-est della casa n. 13-14, i ruderi della casetta e il terreno posto a est della casa. Nelle varie divisioni fra i fratelli Inama, il sedime e il terreno a mattina della casa passò a Giovanni Battista V figlio del fu Giovanni Battista III, nel frattempo passato a miglior vita. Da Giovanni Battista V poi pervenne allo zio Antonio il quale, intorno al 1774, procedette alla costruzione di uno stabbio. In questa fase sembra che detto stabbio fosse di ridotte dimensioni e non avesse ancora incorporato il terreno e la murozia verso nord.
Alla morte di
Antonio la casa fu ereditata dalla figlia Maria Caterina che già da tempo era convolata a nozze con Giovanni Mendini che in quell'occasione si era trasferito nella casa dei suoceri. Dal matrimonio non nacquero figli per cui dopo la morte di Maria Caterina avvenuta circa nel 1804, la casa n. 13-14 e lo stabbio con il relativo terreno, perverrà in eredità al nipote Tommaso, figlio della sorella Dorotea e di Tommaso Paoli di Nanno. Questi si trasferirà a Dermulo e abiterà nella suddetta casa almeno dal 1805 fino a circa il 1821. Il Paoli successivamente assegnò lo stabbio alla moglie Teresa; invece la murozia, come si ricava da due documenti del 1825 e del 1826, pervenne a Romedio Fuganti di Taio. All'inizio degli anni Venti dell'Ottocento, infatti, Tommaso Paoli fece ritorno a Nanno, suo paese natale, per cui mise in vendita i vari beni a Dermulo ereditati dalla zia Maria Caterina. Tra il 1821 e il 1830 tutta la zona che in futuro sarà occupata dalla casa 28, passò in mano ad Antonio Martini, medico di Taio. Di tale passaggio non si hanno evidenze documentali, ma risulta come dato di fatto: Posso solo ipotizzare che il rustico fosse transitato al Martini, per via di qualche residuo di debito che aveva il Paoli nei suoi confronti, considerato che, una compera volontaria in questo luogo da parte del Martini, risulterebbe un po’ strana.
Nel 1834
Vittore Tamè figlio di Giovanni Maria, all’epoca manente al maso Widmann, acquistava lo stabbio con l’annesso orto dal suddetto Martini, in previsione di trasformarlo in casa di abitazione. I lavori iniziarono diversi anni dopo, nel 1852 e furono eseguiti materialmente dallo stesso proprietario. Essi prevedevano l’elevazione dei muri perimetrali per ricavare un piano superiore abitabile. Prima di iniziare la ristrutturazione Vittore  si accordò con i confinanti sul tenore dei lavori che aveva intenzione di eseguire e particolarmente con Romedio Mendini con il quale, possedendo la casa addossata alla sua, aveva deciso di effettuare dei lavori a comune spesa. Una volta avviati i lavori però i due erano entrati in disaccordo per la pretesa da parte di Romedio di voler collocare una trave del tetto, in una posizione svantaggiosa a Vittore, alla quale logicamente il Tamè si era opposto. Il rifiuto non fu accettato di buon grado e di li a poco per ripicca cominciarono le lamentele di Romedio. Il primo passo fu di presentare un reclamo al Comune di Dermulo con lo scopo di far sospendere i lavori. La rappresentanza comunale eseguì un sopralluogo ed ascoltò i vicini di casa, i quali avevano confermato di aver dato il nulla osta a Vittore per i lavori che aveva intenzione di fare. Romedio e la moglie Lucia invece, smentirono qualsiasi accordo col Tamè, anzi volevano vedere il "disegno" perché ritenevano che i lavori presso la loro porta non fossero autorizzati. A seguito di detto sopralluogo il comune non riconobbe nessun procedimento illecito e pertanto accordò al Tamè il proseguimento dell’attività. Il combattivo Romedio però non si arrese e portò le sue rimostranze davanti al Capitano Distrettuale di Cles, al quale esponeva la vicenda, specificando che la rappresentanza comunale aveva fatto visita al cantiere ma che nulla era cambiato, in quanto Vittore Tamè stava proseguendo con i lavori per i quali, inoltre, non aveva presentato alcun progetto. In conseguenza il Capocomune di Dermulo fu redarguito e multato di 5 Fiorini per aver omesso di fornire informazioni al Capitano di Cles. A Vittore fu invece recapitato un decreto che intimava la sospensione dei lavori. Il consigliere comunale Romedio Emer, essendo il Capocomune Giovanni Inama assente, si premurò di rispondere al Capitano Distrettuale spiegando in cosa consistesse “la fabbrica”, ovvero, di un semplice innalzamento della casa di cui ora rimaneva da ultimare solo la copertura. L’Emer spiegò che tale lavoro rivestiva carattere d’urgenza perchè in caso di pioggia le mobilie ne avrebbero sofferto e inoltre anche per la prevenzione degli incendi sarebbe stato opportuno ultimare i lavori. Quindi finalmente Vittore fu autorizzato a finire la costruzione del tetto.
Nella mappa catastale del 1860 la pianta della casa n.28 appare con una forma diversa e di dimensioni più ridotte rispetto ad oggi. E’ evidente che in seguito sia stata oggetto di ampliamenti e altre ristrutturazioni fino ad arrivare all’aspetto odierno. La traccia di uno di questi si può vedere sul pavimento al piano terra dove si può leggere “1879”.
Vittore morì nel 1855 e la casa nel 1858 pervenne in eredità al figlio don Domenico. Intorno al 1862 la famiglia del fu Vittore dovette abbandonare il maso Widmann, dove abitava da più di trent'anni, per cui Rosa e Matilde, sorelle di don Domenico, si trasferiranno nella casa n. 28.[1] Giovanni, altro fratello, abiterà invece in affitto nella casa n. 24, almeno fino al 1869. Nella casa del maso Widmann rimarrà invece Domenica, altra figlia di Vittore, che aveva preso in marito Baldassarre Inama fu Silvestro, successore del suocero come masadore. Dopo il 1869 è plausibile che Giovanni si fosse trasferito con la moglie e i figli nella casa n. 28, dove moriva nel 1876, seguito l'anno dopo dalla moglie Caterina Inama. La presenza di Giovanni nella casa, come del resto quella delle sorelle Rosa e Matilde, fu una cortesia del loro fratello don Domenico, reale proprietario.
Nel 1893 Don Domenico Tamè
moriva a Vervò dove era parroco e nel suo testamento redatto nel 1882, beneficiava della casa le sorelle Rosa e Matilde e i nipoti Filippo Inama, Agostino Inama e Eugenia Inama, figli dell'altra sorella Domenica, già morta nel 1884. Nulla invece fu disposto per gli altri nipoti, figli del defunto fratello Giovanni. Probabilmente tra il padre Vittore, ma ancor di più con il fratello don Domenico, non correva buon sangue. Giovanni era un personaggio facinoroso e si era trovato implicato in alcuni misfatti accaduti in paese nel 1858 che sicuramente avevano creato molto imbarazzo in don Domenico, tanto da escluderlo dai suoi lasciti.
Nel 1900 i fratelli Filippo e Agostino Inama
risultavano proprietari per un sesto ciascuno di detta casa, acquisendo la quota della sorella Eugenia. Nello stesso anno moriva anche Rosa che nel suo testamento redatto nel 1899, lasciava il suo terzo di casa ai nipoti Filippo Inama, Agostino Inama, Eugenia Inama, figli della sorella Domenica e a Candido, Costante e Domenico Tamè figli del fratello Giovanni. Riservava però l'usufrutto alla sorella Matilde vedova di Giacomo Inama Fogia.
Nel 1903 Matilde Tamè, tramite il nipote Agostino Inama
suo procuratore, vendeva a Costante Tamè il suo terzo di casa.
Le evidenze successive ci dimostrano che
Costante Tamè aveva acquistato le quote di casa dai suoi fratelli Candido, Domenico per cui con il terzo acquisito dalla zia Matilde divenne proprietario della metà casa n. 28. Costante con la moglie Rosa Tamè e i sette figli viveva al secondo piano della casa e dopo la morte di Agostino e presumo che avesse acquistato la sua porzione di casa dagli eredi.
Dell'altra metà rimase proprietario
Agostino Inama, per aver acquisito dai fratelli Filippo e Eugenia le altre parti. Agostino nel 1907 abitava in affitto nella casa n.23, e presumibilmente solo nel 1913, dopo la morte della moglie Emilia Inama, si trasferì nella casa n. 28, dove già dal 1908 viveva la figlia Emma con il marito Vigilio Negri. Agostino morì nel 1928 e nel frattempo Emma aveva ereditato dallo zio Clemente Inama la casa n. 41, per cui vi si trasferì con il marito e i figli.
Il 2 settembre 1919 la casa fu interessata da un incendio che distrusse una parte di tetto, danneggiando marginalmente anche la contigua
casa n. 13-14. La casa fortunatamente era assicurata contro gli incendi per un valore di 1200 Corone e il Comune di Dermulo concesse ad ogni famiglia residente ivi residente, dieci piante di abete come contributo per la ricostruzione del tetto.
Nel 1924, la casa valutata 21.000 Lire, fu messa all'incanto per la situazione debitoria dei proprietari. Probabilmente però in qualche modo si riuscì ad evitare l'acquisto da parte di persone estranee, tanto chè, la famiglia Tamè risulta essere proprietaria della casa anche negli anni successivi.
Circa nel 1950
Felice Inama acquisterà da Emanuele Tamè, figlio del fu Costante l'intera casa n. 28, ancora oggi posseduta dai suoi discendenti.

 

 

PERSONE EFFETTIVAMENTE PRESENTI NELLA CASA

Anno 1780

Anno 1830

Anno 1880

Anno 1921

stabbio

stabbio

MatildeTamè

Costante Tamè

 

 

Costante Tamè (n)

Rosa Tamè (m)

 

 

Brigida Tamè (n)

Addolorata Tamè (f)

 

 

Domenico Tamè (n)

Emanuele Tamè (f)

 

 

Irene Tamè (n)

Erminia Daldoss (N)

 

 

Candido Tamè (n)

Emanuele Tamè (n)

 

 

Rosa Tamè (S)

 

 

 

 

Vigilio Negri

 

 

 

Emma Inama (m)

 

 

 

Ada Negri (f)

 

 

 

 Agostino Inama (s)

       
Il nominativo sottolineato corrisponde al capofamiglia. Le seguenti abbreviazioni indicano i rapporti di parentela con il nome sottolineato: m sta per moglie, f. per figlio/a, fr per fratello, S per sorella, v per vedovo/a, p per padre, M per madre, s per suocero/a, n per nipote, z per zio, N per nuora e c per cognato/a. Per il 1780, i nomi dei proprietari provengono dal Catasto teresiano  presso l’A.S.T. Per il 1921 si è preso in considerazione il censimento di tale anno presso l’A.C.D.  Inoltre, e solo per questo anno, sono state evidenziate le persone assenti con la lettera a. Per gli anni rimanenti i nomi dei capifamiglia e/o il numero degli occupanti la casa, sono stati desunti da vari documenti consultati presso A.C.D., A.P.T. e A.D.T.

 

 

 

[1] Le due sorelle non abiteranno stabilmente nella casa, in quanto molto spesso seguivano il fratello sacerdote nella parrocchia alla quale era stato destinato. Ad esempio nel 1869 e almeno fino al 1877 i tre abitavano a Piazzola, in Val di Rabbi, dove don Domenico era curato.

 

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