LA CASA N° 13 - 14 - Casa Sopra la Chiesa - C. del Mafuola? - C. Inama - C. al di là del rì

(Oggi Via del Borgo n. 6, 8 e 10) P.E. 34

 

    
 

        

 

L'ORIGINE DELLA CASA

 

Il caseggiato n. 13-14 e 28, sorge nella parte di Dermulo a nord del Pissaracel, una volta detta "Al di là del Ri" o "Sopra la Chiesa" e oggi denominata Borgo. Per molto tempo di questa casa, per certi versi un po' misteriosa, si è saputo molto poco, essendo mancati, a differenza di altre abitazioni, riferimenti chiari sulla proprietà. Per avere notizie certe, bisognerà aspettare fino alla metà del Seicento, quando Giovanni Battista Inama figlio del fu Valentino, si trasferirà dalla casa paterna ai Marini, nella casa "Al di là del Ri". Abbiamo anche degli indizi abbastanza solidi, per affermare che precedentemente a Giovanni Battista, la casa fosse appartenuta (almeno in parte) alla mensa vescovile di Trento e ai Thun.
Ora affrontiamo cronologicamente la sequenza dei possibili proprietari della casa, a partire dalla fine del Trecento, per poi ricollegarci, due secoli dopo, a quanto detto sopra. Il primo personaggio noto, plausibilmente attinente con la casa è un abitante di Dermulo di nome Lanzono che è documentato nel 1380, come confinante di un terreno alla Croce. Da lui ha preso il nome un maso di Dermulo, ragionevolmente riconoscibile con la nostra casa.
Nel 1461 il vescovo Giorgio Hack concedeva il maso come feudo livellare a un carpentiere di Coredo, tale Giovanni, il quale corrispondeva il relativo canone quantificato in due capponi. Nel 1467, sullo stesso maso fu investito del diritto di riscossione della decima, il massaro Antonio da Coredo.  Nei primi anni del Cinquecento, troviamo un altro individuo, per il quale sono emersi diversi collegamenti con questa zona del Borgo: Antonio Gatta di Coredo. Ebbene, ho ragione di ritenere, confrontando la genealogia di questa antica famiglia, che Antonio fosse un nipote di Giovanni, il carpentiere di Coredo.[1] Evidentemente dopo la morte di Giovanni, il maso fu ereditato da Antonio e di questo, ci fornisce la prova un documento del 1526, dove il Gatta è citato come confinante, a est della futura casa n. 20-21. Antonio appare confinare allo stesso modo anche nel 1534, mentre nel 1561 sono citati i suoi eredi, per cui era già passato a miglior vita. Queste interessanti notizie, ci sono giunte attraverso i vari documenti d'investitura riguardanti il maso (in particolare la casa ubicata a valle del caseggiato di cui stiamo parlando) che i dinasti di Castel Valer possedevano a Dermulo. Gli stessi documenti di investitura ci illuminano anche per i successivi anni 1581 e 1600, dove, al confine est, in sostituzione dei Gatta, troviamo niente meno che i Thun. Dobbiamo quindi convenire che i possessi dei Gatta, fra il 1561 e il 1581, erano transitati ai conti Thun.[2] I dinasti di Castel Bragher, quindi in quel periodo risultavano essere in possesso, oltre che dell'antica Clesura, anche del sedime e pertinenze del futuro caseggiato n. 13-14. I documenti di investitura di Castel Valer, per i successivi anni 1625 e 1641, designano come confinante ad est, un tale "Antonio conduttore", ovvero Antonio Mendini. Ciò significa che i Thun avevano locato i beni che furono dei Gatta, al Mendini che era pure affittuario del maso di Castel Valer.[3] Gli anni Cinquanta del Seicento è il periodo in cui il caseggiato fu occupato da Giovanni Battista Inama e dai Massenza che lo precedettero di qualche lustro.
Riguardo a quest'ultimi, sono arrivato alla conclusione che la proprietàCasa13-14-28 di parte della casa, fosse da attribuire a Leonardo Massenza figlio di Simone II. La ristrettezza e/o la precarietà della casa n.16 (o forse della casa n.15), l'aumento dei componenti anche fra le linee collaterali della famiglia e la disponibilità di una nuova abitazione, avrebbero indotto Leonardo, ad acquisire, dall'allora plausibile proprietario, (Thun?) la casa di cui si parla. Che nel colomello n.16-17-18-19, tra il 1620 e il 1630, esistessero problemi di spazio è comprovato dall'uscita dei due fratelli di Leonardo, Giacomo e Antonio che dopo il matrimonio si erano trasferiti rispettivamente nella casa n. 2-3, e a Taio. Fra i quattro figli maschi di Leonardo, due di nome Vittore e Simone, portarono avanti la discendenza risiedendo nella casa n.13-14, ma già nel 1662, il secondo aveva lasciato Dermulo per trasferirsi a Trento. Conseguentemente i possessi in paese vennero alienati. Qualche terreno fu acquisito da Giovanni Battista Inama che di Simone era anche cognato (i due avevano sposato le sorelle Lorenzoni, figlie di Giovanni Battista di Cles), per cui non è escluso, che anche una parte di casa n. 13-14, avesse fatto parte di queste vendite. Un'altra porzione della casa di Simone, invece, ritengo fosse pervenuta alla mensa vescovile, quindi intorno al 1680, al notaio Udalrico Barbacovi ed infine alla figlia Anna moglie di Giacomo Antonio Mendini.[4] Ma nelle disponibilità della mensa erano giunti anche alcuni beni appartenenti a Vittore Massenza, fra i quali un terreno a Santa Giustina (future p.f. 327-328-329) e un'altra parte di casa n. 13-14. Di tale vendita abbiamo una testimonianza indiretta da un documento del 1697. Nello scritto, alla cui stesura erano presenti Bartolomeo e Valentino figlio del fu Giovanni Battista Inama, il massaro Giovanni Francesco Maffei, assegnava, per volere del vescovo Giovanni Michele Spaur, un "rauto grezzo e bosco" nel luogo al Rautel, all'eremitaggio di Santa Giustina e contestualmente defalcava il relativo valore di 43 Ragnesi, dal debito che la famiglia del fu Giovanni Battista Inama aveva con la mensa, per aver acquistato - si disse - dei beni e una casa. La casa era stata acquisita da Maddalena vedova di Giovanni Battista Inama nel 1680. Fra le congetture, non escludo che, nelle compravendite seicentesche che hanno visto come attrice la mensa di Trento, avesse avuto un ruolo, anche il prete Giovanni Battista Hochenhauser, attestato come proprietario di beni nei pressi della casa (forse la stessa che nel documento fu definita "murozia del Mafuola") e protagonista di alcune compere di terreni, guarda caso dai fratelli Simone e Vittore Massenza.[5] Ricapitolando quindi, Giovanni Battista Inama aveva acquistato il primo embrione della casa n.13-14, intorno al 1660 dai Thun e poco dopo un'altra porzione dal cognato Simone Massenza; mentre la vedova Maddalena, nel 1680 aveva acquisito un'ulteriore porzione dalla mensa di Trento,  appartenuta in precedenza a Vittore Massenza.
Il notaio Udalrico Barbacovi invece, nel 1681 aveva acquistato dalla mensa vescovile un'altra parte della casa n. 13-14 appartenuta a Simone.
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LA CASA ALLA FINE DEL SEICENTO

Dopo la morte del padre Giovanni Battista I, la casa fu divisa fra i quattro figli Bartolomeo, Antonio, Valentino e Michele, mentre la parte di casa che fu di Udalrico Barbacovi, fu assegnata come dote alla figlia Anna. Quest'ultima si era unita in matrimonio con Giacomo Antonio Mendini per cui in seguito la casa assunse la denominazione "Casa dei Mendini di Sopra".[7]
Schematicamente, considerando i confini enunciati in varie compravendite, è possibile stabilire quali parti di casa appartenevano ai quattro fratelli Inama eredi del padre
Giovanni Battista I. Per cui immaginando la casa suddivisa in quattro porzioni, partendo da sud-est e proseguendo in senso orario, troviamo Antonio, Michele, Valentino e Bartolomeo.[8]
Michele nel 1693 vendeva la sua porzione di casa per 70 Ragnesi al fratello Antonio e si trasferiva nella vicina casa 17-18. La parte di casa di Bartolomeo, dopo la morte avvenuta nel 1700, pervenne alle due figlie Maddalena e Domenica che avevano preso marito rispettivamente Pietro Antonio Mendini e Bartolomeo Fuganti di Taio. La porzione di Maddalena fu acquisita prima del 1718 da
Giacomo Antonio Mendini che nei pressi confinava con la casa dotale della moglie Anna Barbacovi. Domenica invece sembra avesse abitato nella sua parte di casa assieme al marito Bartolomeo Fuganti per diversi anni a partire dal 1711. Nel 1718 il Fuganti acquistava da Giacomo Antonio Mendini la parte di casa in precedenza appartenuta al cognato Pietro Antonio Mendini. Dal matrimonio di Bartolomeo e Domenica nacque solo una figlia, Antonia, che nel 1750 quale erede della madre Domenica, con la presenza del padre Bartolomeo Fuganti e del marito Giovanni Bonvicin, vendeva la casa a Dermulo a Giovanni Battista Inama II. Il documento fu però rettificato solamente nel 1758. La casa di Valentino dopo la sua morte avvenuta nel 1720 fu ereditata dalla figlia Maddalena che prendeva marito nella persona di Antonio Rosetta di Taio. La casa rimase almeno fino al 1731 in proprietà dei coniugi, per poi essere verosimilmente alienata a Giovanni Battista II fu Antonio Inama. Di questa vendita però non ci è pervenuta nessuna testimonianza documentale.

La parte di casa di Antonio che morì nel 1701 fu ereditata dai tre figli Antonio, Bartolomeo e Giovanni Battista II. Nel 1722 Antonio fu Antonio Inama, abitante a Favogna, alienò tutti i suoi beni posseduti a Dermulo, al fratello Giovanni Battista II, fatta eccezione della porzione di casa, la quale invece sarà venduta nel 1726 al fratello Bartolomeo (Tomelin) per 60 Ragnesi. Nel 1747 Bartolomeo vendette tutta la porzione di casa in suo possesso al fratello Giovanni Battista II, per il prezzo di 105 Ragnesi.

La casa dotale di Anna Barbacovi rimase in suo possesso fino al 1731, ma per diverso tempo fu disabitata, forse anche per le sue precarie condizioni strutturali come appare da un documento del 1748. La non rosea situazione finanziaria del marito Giacomo Antonio Mendini, traspare da molteplici documenti e trova conferme nelle vendite susseguitesi, anche a mezzo dei suoi eredi. Infatti un documento del 1748 ci dice che l'orto e la casa, definita con l'eloquente termine di "murozia", erano finiti in mano alla comunità di Dermulo con il placito di Orsola, figlia del fu Giacomo Antonio. Il comune poi cedeva tutto a Giovanni Battista Inama II per il prezzo di 40 Troni.

Alla metà del Settecento, quindi, dopo le varie acquisizioni viste sopra, tutto il caseggiato si era concentrato in mano di Giovanni Battista Inama II.

 

LA CASA DOPO LA MORTE DI GIOVANNI BATTISTA II

Alla morte di Giovanni Battista II avvenuta nel 1757, nelle divisioni ereditarie fra i figli Giovanni Battista III, Giovanni e Antonio, il caseggiato ritornò ad essere frazionato. Cristano Emer nel 1759 stillò un progetto divisionale che fu ufficializzato solamente nel 1777, in rogiti del notaio Baldassarre Alfonso Bergamo di Taio. Nel 1764 Giovanni Battista III passava a miglior vita, per cui in sua vece alle divisioni intervennero la vedova Lucia anche come tutrice del figlio minorenne Giovanni Battista V ed alcuni attinenti. Ecco la descrizione delle tre parti, che assieme ci permettono di conoscere l’entità della casa a fine Settecento. Nella descrizione, rettificata nel 1777, si era tenuto conto delle permute avvenute nel 1770 e nel 1773.

 

Giovanni Battista V

“…a basso stalla più grande vicina alla strada comunale, la metà della caneva verso sera poi tramezzata con la porzione toccata a Antonio, la metà del portico verso sera, quindi passata in potere di Antonio in rogiti Widmann, salva la servitù del fu Giovanni Battista e ora a suo figlio di passare per andare e venire dalla caneva e porvi ordegni e altro presso la caneva. L’andito presso la porta dabasso in faccia all’uscio di sopra della stalla del medesimo minore ora da sua madre coperto. Fino alla croce fatta sulla centa, divenuto ora muro maestro verso la strada comunale, qual andito esiste dalla pianta a basso fino all’aria sopra il coperto con libertà di fabbricarvi entro questo una camera o stufa con uscio sul somasso in riga all’accettato laudo. Una particella di corte ossia sito fuori dalla porta grande che porta al somasso aderente alla strada. Il quale sito poi pervenne ad Antonio in rogiti Widmann, una corte presso la strada comunale con porzione di centa ed apresso la portaggia da basso a tutti e tre comune, per entrare nelle porzioni da basso di Antonio e Giovanni e poi rinunciate al minore Giovanni Battista in rogiti Widmann …. Tutti gli anditi ortivi con tocchi di centa verso mezzodì e sera e con vigne e arbori. In alto cucina verso mattina sopra la stalla del fu Giovanni Battista e ora del suo erede minore, con coperto fino all’aria e pezzo di somasso verso la strada comune e presso la sua cucina, ed andito destinato a detta fabbrica con sue stradughe e coperti, il terzo del ponte per entrarvi in detto somasso, un stabbio verso settentrione per fare camere.”

 

Antonio

“…a basso una stalla aderente a quella del minore con una porzione di corte in faccia a detta stalla, la cui corte fu data in permuta al minore in rogiti Widmann, la metà del portico verso il ponte con servitù del fu Giovanni Battista per andare alla caneva propria. La metà della caneva, cioè quella di sopra l’andito al di fuori verso la strada comunale dalla croce in su col sito sopra e coperto, una porzione di andito al di fuori presso la porta grande conforme toccò al minore. In alto la terza parte della porta, il terzo del somasso, terzo dei stradugari, la cucina fu una volta stufa, sopra la propria stalla, anditi con libertà di fabbricarvi una camera presso lo stabbio del minore, un orto con la centa di sotto confinante alla parte di Giovanni e un prato annesso con vigne, salva la servitù per lo stesso, agli eredi di Giuseppe Massenza per entrare in casa e anche a Romedio Mendini se gli compete, altrimenti no”.

 

Giovanni

“….un revolto al di là della stalla con l’obbligo alle altre parti di accomodare lo stesso che minaccia caduta e fare assieme le mangiatoie se fosse destinato a stalla. Revoltelli di la dentro a quello e entro in cima è posseduto da Antonio in rogiti Widmann, porzione di corte avanti il revolto, tocco di murochia rinunciata al minore, andito presso la porta a mano sinistra nell’uscire dalla porta grande poi dato al minore, poi pervenuto a Antonio per permuta, il quale fabbricò sopra lo stabbio, come al presente si vede. In alto il terzo della porta e del somasso allora indiviso, il terzo delle stradughe, su cui fabbricò una cameretta, una cucinetta sopra il revolto a se toccato, un salettino al di fuori, che ora dalla madre Lucia, come compratrice, è ridotto in altra fabbrica. E l’orto di mezzo ora posseduto dal minore”.

Ogni parte avrebbe potuto aprire un uscio sul somasso per le proprie camere, e avrebbe potuto alzare il tetto sopra le proprie parti assegnate.
Giovanni e Giovanni Battista III sposavano le due sorelle Cecilia e Lucia, figlie di Vittore Inama che avevano ereditato dal padre una porzione di casa alla Crosara. Nel 1770 Giovanni Inama cedette a Lucia, vedova di suo fratello Giovanni Battista III, la sua parte di casa al di là del rì, con l’orto e vari anditi, ricevendo in permuta dalla cognata la sua porzione nella casa alla Crosara. La parte ceduta da Giovanni nella casa al di là del rì, era composta da: “a basso in tre revolti,…. una stanza fatta in parte a revolto in parte a soffitta, un pezzo di cortile e anditi, l’orto con vigne e altri arbori. In alto nella sua parte di ponte, nella comunione del somasso e stradughe come da dette divisioni, una cucina a revolto con forno, un andito al pari della cucina, e coperto fino all’aria con la servitù di poter passare per l’andito ossia orto di Antonio Inama per portarsi ai suddetti revolti”. Giovanni e Cecilia quindi, si trasferirono nella casa alla Crosara e non avranno più interessi nella casa al di là del rì.

Nel 1773 Lucia vedova di Giovanni Battista Inama III, cedeva al cognato Antonio Inama, una porzione di portico per poter ingrandire la stalla; riservandosi però, il diritto di passare per la cantina della loro casa; una porzione di corte, fatto salvo il passo con pedoni e carri, e la sua parte di cortile al di là del ponte fino all’orto di Antonio. Ancora gli cedette la strada che passava per il cortile ed infine un piccolo locale posto all'interno della cantina di Antonio, che in parte era proprietà di Lucia, per averlo acquisito dal cognato Giovanni. Antonio in cambio cedette una parte di corte di sua proprietà verso sera con l’obbligo di spostare l’uscio nel portico che portava alla stalla e di pagare 39 Ragnesi a Lucia, secondo la stima fatta dai periti muratori Silvestro Endrizzi e Nicolò Pellegrini. In questo modo Antonio poteva costruire, per la misura di quanto era larga la propria cucina, un balcone sopra la corte che gli era stata appena ceduta, senza però poter gettare immondizie o acqua. In alternativa al balcone avrebbe potuto costruire un forno. Poco dopo le sopra esposte divisioni erano sorti degli screzi fra Lucia, come rappresentante figlio Giovanni Battista V, da una parte, e il cognato Antonio e il genero Giovanni Mendini dall’altra, per cui nel 1774 si affidarono a Francesco Cristoforetti di Taio e a Giacomo Moggio di Cles eletti rispettivi arbitri per trovare una soluzione. Di conseguenza furono stillati alcuni punti che i litiganti si impegnarono a rispettare. Particolarmente si decise che
- il somasso dovesse spettare per 2/3 a detta vedova e 1/3 a Antonio
- per la scala volante posta da Antonio sul somasso per portarsi alla sua camera, possa rimanere e rimanere in mezzo all’uscio della camera posta di sotto. Deve levarla solo per non impedire il transito di carri. Antonio deve otturare la finestra aperta nella camera in alto.
- che circa l’uscio fatto sul somasso sopra il portico, possa rimanere, ma anche il diritto che se Lucia fabbrica una nuova camera, deve lasciar aprire un uscio pure a lei
- riguardo alla fabbrica nuova di Antonio, deve ritirarsi un po’ da quanto fatto
- Antonio deve spianare la terra da basso perché Lucia ha il passo. Per quanto riguarda la piantagione per macinare materie da fare olio, può rimanere, però quando passa la vedova per portarsi alla sua caneva, si deve fermare il giro dell’accennato edificio
- perché non entri acqua dalla porta aperta da Antonio verso mattina presso la strada comunale, a danno di revolti di Lucia, Antonio deve mettere dei ripari
- per il sito fuori dalla porta grande per entrare in casa venduto dalla vedova a Antonio può essere occupato da Antonio ma non ostacolare la vedova che si vuol portare a basso nel suo portico e revolti
- Infine i due paghino in proporzione gli arbitri 2/3 ad Antonio Inama e 1/3 alla vedova Lucia.

I problemi fra le due parti comunque non si risolsero, anzi, tre anni dopo si continuava ancora a litigare; a ciò aveva contribuito la particolare localizzazione della proprietà dei vari locali, dovuta principalmente a permute avvenute negli anni precedenti, per le quali, risultavano locali e anditi distribuiti senza soluzione di continuità in tutto il caseggiato. Per tale motivo, nella primavera del 1777 fu necessaria una nuova composizione, con la quale si cercò, per quanto possibile, di raggruppare le proprietà in due blocchi. Quindi Lucia trasferì ad Antonio la sua porzione di appartamento verso la strada comunale, con gli anditi sopra e una porzione di somasso fino alla metà. Il tutto formato da: “una cucina a rivolto di Passi 15, il volto Passi 7, il somasso Passi 5, il forno, il secchiaro, il focolare e camino, due finestre una di pietra ferata con cristalli, uscio di pietra e un ponticello, due anelli di ferro nel volto, il sito sopra la cucina con suo coperto di Passi 10, i muri fuori della cucina, il coperto sopra quelli Passi 8, il somasso grande Passi 4 per un totale di Ragnesi 119:0:6”. Antonio le diede in cambio le due camere esistenti oltre la metà del somasso, sterquilinio, spleuze porzione di ponte così descritta: “una camera a soffitta sul somasso Passi 8, il somasso di quella Passi 2, soffitta, finestra e uscio, altra cameretta di sopra di muri Passi 5, soffitta finestrella, armaro e uscio, somassetto di sopra e coperto, scala di legno, un terzo della porta del ponte di pietra Ragnesi 8:1:6, il sito fuori della porta fino al muro della fabbrica nuova di Antonio, il coperto sopra il sito Per un totale di Ragnesi 70:0:6”. La stima dei locali fu effettuata dai murari Giovanni Leita di Cles e Giovanni Rossi di Piano. In questo modo, l’appartamento superiore verso gli orti apparteneva tutto a Lucia e di conseguenza quello verso la strada comunale, tutto ad Antonio. Quest’ultimo avrebbe dovuto dare a Lucia 49 Ragnesi di conguaglio. Se Antonio avesse voluto abitare l’appartamento superiore, avrebbe dovuto costruirsi a sue spese il ponte sulla sua metà di somasso. Entrambe le parti avrebbero potuto alzare il tetto, Antonio verso la strada comunale, Lucia verso gli orti. A Lucia fu concesso di cuocere il pane nel forno della cucina di Antonio per lo spazio di un anno; inoltre, la porta grande del ponte, che fino ad allora proprietà esclusiva di Lucia, sarebbe appartenuta per un terzo ad Antonio. Nell’accordo viene menzionata una “fabbrica nuova” intrapresa da Antonio che corrispondeva, almeno in parte, alla futura casa 28. [9]
Le discordie fra Lucia e il cognato
Antonio comunque non si placarono, proseguendo ancora nel 1778 e interessando, questa volta, la costruzione del tetto da parte di Antonio, per il quale Lucia pretese che la colm, facesse da confine fra i due e altre piccole cose. Nel 1783 Lucia intimò ad Antonio di non cambiare il lato, da cui le ali del tetto dello stabbio dovevano spiovere, per fare in modo che l’acqua piovana cadesse per metà verso gli orti e per l’altra metà sul sito di Antonio, presso la strada comune.

Dal matrimonio di Antonio Inama con Caterina Fedrigoni, nacquero due figlie, Dorotea e Maria Caterina. Mentre la prima sposando Tommaso Paoli di Nanno lasciò il paese, Maria Caterina convolata a nozze nel 1768 con Giovanni Mendini, visse nella casa paterna. Antonio nel suo testamento del 1771, poi sostituito senza importanti variazioni, da quello redatto nel 1779, designava la figlia Maria Caterina moglie di Giovanni Mendini erede di tutta la sua sostanza e quindi anche della casa, disponendo una somma in denaro per l'altra figlia Dorotea. Si trattava della parte di casa posta a sud-ovest, confinante con la strada comunale, più tardi numerata con il 14, ma anche della futura casa 28.
Nel catasto teresiano del 1780 la porzione di casa di
Antonio Inama, benchè ancora in vita, (morì intorno al 1794) figurava a nome del genero Giovanni Mendini, con 24 Pertiche di superficie, così come quello catalogato come orto della superficie di 66 Pertiche ma che in realtà era già stato trasformato, almeno in parte, in stabbio, ossia la casa 28.

 

LA CASA NELL'OTTOCENTO

LA CASA N.14

Giovanni Mendini redasse il suo testamento nel 1802 e, non avendo discendenti, lasciò la sua metà di casa, che lui affermava di aver "in parte ricevuto dal suocero e in parte comprato e migliorato", per la metà alla moglie Maria Caterina e per l'altra metà al suo erede, cioè al fratello Matteo Mendini. Matteo però, non entrò mai in possesso della casa in questione, ma ricevette altri beni e del denaro. La casa invece dopo la morte di Maria Caterina, avvenuta circa nel 1804, perverrà in eredità al nipote Tommaso, figlio della sorella Dorotea e di Tommaso Paoli di Nanno, il quale si trasferirà a Dermulo e abiterà nella suddetta casa, almeno dal 1805 fino a circa il 1821. Verso la fine di quell’anno, infatti, Tommaso vendeva la casa detta “al di la del rivo” a Maria, vedova del fu Giacomo Endrizzi, tutrice dei suoi figli minori Anna, Pietro, Mattia e Romedio. La casa confinava a est e a sud con la strada comunale e a ovest con Elisabetta vedova di Giovanni Battista Inama V; il prezzo fu stabilito in 500 Fiorini. (Il Paoli era divenuto proprietario pure della futura casa n. 28 che poi assegnò a sua moglie Teresa). Nella casa allora marcata con il 9, qualche anno più tardi troveranno posto tutti e tre i figli maschi del fu Giacomo Endrizzi: Mattia, Romedio e Pietro con le rispettive famiglie. Sicuramente i locali a disposizione di ognuno erano pochi e abbastanza angusti. Dai confini enunciati nei numerosi documenti riguardanti questa casa, possiamo localizzare i tre nuclei nel seguente modo: Mattia occupava la parte più estrema verso sud, confinante cioè con la strada comunale; Pietro quella più a settentrione confinante a nord con Giovanni Battista Inama e Romedio quella centrale. La parte di Mattia è così descritta nel 1829, quando la casa è oggetto di assicurazione di dote della moglie Maria Zadra: "una cantina, un saletto e anditi sopra questi fino all’aria cui confina: 1 Romedio Endrizzi, 2 Pietro Endrizzi, 3-4 gli sudetti con anditi e somasso". Nel 1845 la casa è menzionata per lo stesso scopo, fungendo da assicurazione per la seconda moglie di Mattia, Marianna Profaizer. Nell'occasione si elencavano solo i confini, anche se in modo incompleto: "1 strada comunale, 2 Batta Inama, 3 Romedio Mendini".
Pietro abiterà per poco la sua parte, in quanto già nel 1830 alloggiava come manente nella casa di Antonio Martini, da dove poi nel 1838 si trasferiva a Banco. La parte di casa di Pietro, numerata con il 14, nel 1836 verrà acquistata dai coniugi Teresa e Giovanni Battista Inama VI. La parte di Mattia, passò dopo la sua morte al figlio Giovanni che trascorse gli ultimi anni della sua vita da celibe, nella casa di Arcangelo Inama, al quale fu affidato a spese del comune per non essere in grado di mantenersi. La sua casa andò all'incanto e fu aggiudicata nel 1893 a Camillo Inama, per il prezzo di 151 Fiorini. L'esigua abitazione era composta: al piano terreno da una stalla, secondo piano da una stufa e una cucina. Dobbiamo arguire che la porzione appena descritta era corrispondente a quanto posseduto dal padre Mattia, fatta eccezione di un piccolo avvolto adiacente alla cantina di Romedio Mendini, ceduto nel 1868 a quest'ultimo. Romedio Endrizzi, altro fratello, non abitò con continuità la sua parte di casa, nel 1841 si trovava con la moglie Teresa a Milano, dove erano nati almeno due dei suoi sei figli, e dove rimase per circa cinque anni. Dopo il matrimonio avvenuto nel 1853 in una parte della casa abitava il primogenito Domenico con la moglie Maria Giuliani. Dopo il 1858 la casa fu lasciata vuota in quanto Domenico fu imprigionato a seguito dell'efferato crimine commesso ai danni di Giovanni Battista Battocletti, mentre la vedova Maria emigrò con i figli in Austria. Alla morte di Romedio Endrizzi, la casa pervenne in proprietà al figlio Francesco, l'unico presente a Dermulo, in quanto gli altri da molto tempo e per vari motivi erano assenti. Ma nel 1880 pure Francesco lasciò il paese per raggiungere l'Austria e successivamente emigrare in America. Francesco aveva lasciato in patria parecchi debiti e, per tale motivo, Camillo Inama nel 1899 si aggiudicò per l'importo di 280 Fiorini, la casa che era stata posta all'asta. La casa consisteva nei seguenti anditi: a piano terra una staletta e un voltino; al primo piano: cucina e stufa; al secondo piano: camera e antane.[11]
La casa fu poi occupata dai tre figli di
Camillo: Amadio, Luigi e Giovanni Battista con le rispettive famiglie. Luigi poi emigrò in America lasciando la casa ai fratelli.

LA CASA N.13

Nel più volte citato catasto del 1780, la parte più ampia della casa al di là del rì, con una superficie di ben 114 Pertiche, era appannaggio di Giovanni Battista Inama V. La consistenza della proprietà in mano dei discendenti di Giovanni Battista, come vedremo, varierà molto nel proseguo degli anni con acquisti, permute, vendite e riacquisti. Ci fu un periodo dove furono perfino estromessi dalla casa, per poi arrivare fino ai giorni nostri e ritrovarli proprietari dell'intero caseggiato.
Nel 1827 la parte di
Giovanni Battista Inama VI, era ancora integra come pervenutagli in eredità dal padre Giovanni Battista V, quindi con la stessa superficie rilevata nel 1780 e confinante a est con la strada e lo stabbio, a sud con gli eredi Endrizzi, a ovest con l'orto e a nord con l’orto che fu di Tommaso Paoli. Nel 1828 Giovanni Battista VI per assicurare i beni dotali della moglie Teresa Zambiasi, le cedeva, oltre a due terreni, anche una parte di casa costituita dai seguenti locali: al pianterreno stalla e portico annesso, la corte al coperto, la caneva; al secondo piano: la stufa, la cucina, e metà somasso con anditi sopra la stufa e cucina fino all’aria. Ed inoltre un orto confinante con la parte di casa appena ceduta, la qual casa dai confini descritti si poteva individuare come una porzione posta a sud-ovest della proprietà, che confinava a est con altra parte dello stesso Giovanni Battista VI, a sud gli eredi di Giacomo Endrizzi e a ovest e a nord con l’orto. La casa che inizialmente recava il n. 10, nel 1833 era marcata con il 13.
Nel 1836
Teresa e Giovanni Battista Inama VI permutavano con Romedio Mendini, tutta la casa che in quel momento era in loro possesso, ovvero le 114 Pertiche relative alla casa n. 13, ricevendo in cambio un terreno alle Late e l'utile dominio su un terreno alle Marzole, livello Thun. La casa fu così descritta: "casa di muri murata e di legnami costruita da terra fino all’aria che comprende al pian terreno 2 avvolti massicci e un altro che serve da caneva dei venditori. Riservandosi il portico tutto il resto sia al primo che al secondo piano è compreso nella vendita della casa. La qual casa confina: 1 Vittore Tamè e anditi di altri che servono di accesso per il ponte, 2 fratelli Endrizzi, 3 l’orto sottodescritto, 4 Vittore Tamè e detto orto". Romedio in quel momento era sprovvisto di propria abitazione e contemporaneamente Giovanni Battista era in difficoltà economiche, per cui le due esigenze si incontrarono. Nello stesso giorno i coniugi Inama, acquistavano da Pietro Endrizzi un piccolo appartamento nella casa n. 14, dove poi andarono ad abitare. La casa acquisita all'Endrizzi fu così descritta: "casa a Dermulo, di muri murata e di legnami costruita da terra fino all’aria che confina 1 Mattia Endrizzi, 2 strada comune 3, i giugali compratori 4 Antonio Endrizzi".[10] Nel 1838 Romedio trasferiva in proprietà della moglie Lucia Inama diversi suoi terreni e la suddetta casa. In un prospetto redatto dal capocomune di Dermulo nel 1836, nella riga in elenco, relativa alla casa 13-14, non si fa menzione di Giovanni Battista Inama come proprietario. Il fatto risulta un po' anomalo perchè al momento della stesura del succitato elenco, i coniugi Teresa e Giovanni Battista Inama, avrebbero dovuto possedere, e infatti possedevano, l'abitazione acquistata da Pietro fu Giacomo Endrizzi. Nel 1859 moriva Giovanni Battista VI e la casa nel 1861 veniva ereditata dalla moglie Teresa, avendo le figlie rinunciato all'eredità. Alla morte di Teresa avvenuta nel dicembre del 1874, la casa pervenne in eredità alla figlia Elisabetta, che già nel 1867 era convolata a nozze con Camillo Inama. Camillo dopo il matrimonio aveva lasciato la casa paterna n. 2-3, per abitare nella casa della moglie Elisabetta. Nel 1899 Camillo acquistava per la somma di 280 Fiorini, la casa che era di Francesco Endrizzi, la quale era stata pignorata e messa all'asta su istanza dei molti creditori. Nel 1903 Camillo cedeva ai suoi figli Amadio e Battista la casa ereditata, dalla rispettivamente moglie e madre Elisabetta.

La casa n. 13, dobbiamo supporre che nel 1865, alla morte di Lucia Inama, sia pervenuta in eredità al marito Romedio Mendini. Nel 1879 alla morte di Romedio, venne divisa fra i suoi figli Giuseppe e Tobia. Al primo fu assegnata la parte più a nord (porzione II), confinante con don Domenico Tamè, Romedio Endrizzi, la porzione del fratello Tobia e il comune, così descritta: Al piano terra: cantina nuova e vecchia, il portico restante dopo assegnata la porzione alla parte prima, che sarà diviso da muro comune e con il diritto di farsi l’uscio per accedere a questi locali, sotto la scala che porta al primo piano. Orto diviso dalla prima porzione, fino alle macerie del Comune. La scala nominata che è in comune deve essere costruita entro il 2 maggio 1880. Al primo piano: somasso porta d’ingresso e battenti in comune alla prima porzione, cesso attuale e camerone nuovo a settentrione col diritto di farsi l’uscio sul somasso dietro la porta d’ingresso. Al secondo piano: altane, sottotetto e tetto fino all’aria, poste sopra il camerone nuovo sopra descritto e sopra il somasso comune. Il voltino massiccio da farsi sopra il portico di questa porzione dovrà essere fatto a comuni spese entro due anni. Di questa casa diverrà proprietaria la figlia unica di Giuseppe di nome Rosalia che poi venderà a Dario Inama.
A
Tobia invece toccò la parte sud confinante a est e a nord con la porzione del fratello Giuseppe, a sud con Giovanni Endrizzi e a ovest con la strada, (porzione I) così formata: Al piano terra: stalla o portico a sera per farsi la cantina, corte e orto a mezzodì e a sera diviso dall’altra porzione con termini segnati con croce. Al primo piano: stufa e cucina a sera, saletto in comunione con la porzione II, e la scala che dal piano terra mette al primo piano in comunione con la porzione II. Questa scala sarà collocata lungo la parete nord della casa e monterà sul saletto comune posto fra la cucina assegnata a questa porzione e la porzione II. Siccome il saletto è mancante di avvolto, sarà costruito a spese comuni a modo di volto in piano. Al secondo piano: camerone sopra la stuffa e cucina propria di questa porzione, altane, sottotetto e tetto sovrapostovi fino all’aria. Come pure altane, sottotetto e tetto sopra il somasso, fino al muro che divide il camerone nuovo dal saletto, e tale muro resta in comune e divisorio con la seconda porzione.

La scala che dal primo porta al secondo piano, sarà collocata nel saletto comune, dopo che la cantinellata in confine con la cucina, sarà trasportata verso la cucina stessa, fino allo spigolo dell’uscio delle stessa, la quale scala poi resterà in comune con la porzione II. Questa porzione avrà diritto a farsi l’uscio nel muro settentrionale al piede della scala che porta al primo piano, con diritto di passo per recarsi alla cantina assegnatale, come pure sarà fatta una strada che percorre la linea di confine da sera a mattina partendo dalla strada comunale e portandosi alla scala del piano terra. La strada resta comune per passaggio con la seconda porzione.

Nella casa abiteranno i due figli di Tobia: Emilia che era sarta e soprannominata Sécia, morì nubile nel 1945 ed Angelo detto Belgién, pure da ammogliare, che morì nel 1962. La casa era nel frattempo passata all'Ente Comunale di Assistenza (ECA) di Cles il quale la cedette ad Amadio Inama.

 

 

PERSONE EFFETTIVAMENTE PRESENTI NELLA CASA

Anno 1670

Anno 1710

Anno 1780

Anno 1830

Anno 1880

Anno 1921

Giovanni Battista Inama

Caterina Bertoldi (v)

Lucia Inama (v)

casa 13

casa 13

casa 13

Maddalena Lorenzoni (m)

Antonio Inama (f)

Gio.Batta Inama (f)

Battista Inama

Tobia Mendini

Maria Tamè (v)

Valentino Inama (f)

Bartolomeo Inama (f)

 

Teresa Zambiasi (m)

Francesca Zamboni (m)

 

Bartolomeo Inama (f)

Gio.Batta Inama (f)

  Giovanni Mendini

Elisabetta Inama (f)

Emilia Mendini (f)

Francesca Zamboni (v)

Giobatta Inama (f)

Nicolò Inama (f)

M. Caterina Inama (m)

Elisabetta Zini (M)

Virginia Mendini (f)

Emilia Mendini (f)

 Ursula Inama (f)

Marino Inama (f)

Antonio Inama (s)

 

M.Addolorata Mendini (f)

Angelo Mendini (f)

Michele Inama (f)

 

 

Caterina Massenza (v)

 

 

 Antonio Inama (f)

Valentino Inama

 

 

Giuseppe Mendini

casa 14

Agata Inama (f)

Caterina Geronimi (m)

 

 

Maria Tamè (m)

Amadio Inama

 

Maddalena Inama (f)

 

casa 14

 

Rosa Stratta (m)

 

 

 

Maria Mattevi (v)

casa 14

Severino Inama (f)

 

Margherita Toniolli (v)

 

Romedio Endrizzi (f)

Romedio Endrizzi

Amedeo Inama (f)

 

Domenica Inama (f)

 

 

Teresa Mendini (m)

Eligia Inama (f)

 

 

 

 

 

Alberto Inama (f)

 

 

 

Mattia Endrizzi

Maria Giuliani (v)

Romeo Inama (f)

 

 

 

Maria Zadra (m)

Rosina Endrizzi (f)

 

 

 

 

Marianna Endrizzi (f)

Alessandro Endrizzi (f)

Battista Inama

 

 

 

 

 Melania Endrizzi (f)

Carolina Mendini (m)

 

 

 

 

 

Dario Inama (f)

 

 

 

 

Francesco Endrizzi

Rita Inama (f)

 

 

 

 

Costanza Rosetti (m)

 

 

 

 

 

Irene Endrizzi (f)

 

 

 

 

 

Rachele Endrizzi (f)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Maria Rizzi (v)

 

 

 

 

 

Giovanni Endrizzi ( f)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Camillo Inama

 

 

 

 

 

Elisabetta Inama (m)

 

 

 

 

 

Amadio Inama (f)

 

 

 

 

 

Luigi Inama (f)

 

 

 

 

 

Gio.Batta Inama (f)

 

 

 

 

 

 

 

Il nominativo sottolineato corrisponde al capofamiglia. Le seguenti abbreviazioni indicano i rapporti di parentela con il nome sottolineato: m sta per moglie, f. per figlio/a, fr per fratello, S per sorella, v per vedovo/a, p per padre, M per madre, s per suocero/a, n per nipote, z per zio, N per nuora e c per cognato/a. Per il 1780, i nomi dei proprietari provengono dal Catasto teresiano  presso l’A.S.T. Per il 1921 si è preso in considerazione il censimento di tale anno presso l’A.C.D.  Inoltre, e solo per questo anno, sono state evidenziate le persone assenti con la lettera a. Per gli anni rimanenti i nomi dei capifamiglia e/o il numero degli occupanti la casa, sono stati desunti da vari documenti consultati presso A.C.D., A.P.T. e A.D.T.

 

 

[1] L'ipotesi di identità fra il maso di Lanzono e la futura casa n. 13-14, derivava principalmente, oltre che dal collegamento genealogico fra il primo locatario Giovanni e i successivi possessori, ossia i Gatta, dalla presunta continuità di possesso da parte della mensa, fino a dopo la metà del Seicento. Tali ipotesi però, si sono poi scontrate con altre evidenze, ovvero la mancanza di qualsiasi riferimento a questi beni, negli elenchi delle proprietà gafforiali a Dermulo, riferiti agli anni 1620/1640. Questo potrebbe significare due cose, in alternativa una all'altra: i titoli che dimostravano la proprietà della mensa erano andati persi od obliati, oppure, i Thun o forse già i Gatta, avevano acquistato i beni dalla mensa. Che la mensa in tempi successivi fosse apparsa come proprietaria di parte di questi beni è da considerarsi un evento casuale.

[2] Non conosciamo i nomi e quindi nemmeno se erano da attribuire alla linea di Castel Thun o a quella di Castel Bragher, poichè sono menzionati in entrambi i casi come "ill. dominus de Thono". Infatti fra questi ultimi e i Gatta si era instaurato un buon rapporto di fiducia, palesato anche dalla nomina ad amministratore dei beni Thun posti nel circondario di Trento, di Giuseppe figlio di Nicolò Gatta.

[3] Un documento del 1713, riportato in uno scritto di Vigilio Inama, sulla storia della famiglia, tratta del rinnovo di investitura ad Alberto Inama di Fondo di un broilo dei Thun localizzato, si dice, "sotto la casa del feudatario", la cui prima investitura, era stata fatta a favore di Bartolomeo Inama, padre del suddetto Alberto, nel 1654. Se la trascrizione è esatta, la casa del feudatario non poteva che essere la futura 13-14 e 28, perchè a Dermulo i Thun non possedevano all'epoca nessuna dimora.

[4] Sono stati proprio i terreni alla Croce e al Bertusel pervenuti assieme alla casa, con i loro proprietari e confinanti che mi hanno illuminato e permesso di chiudere il cerchio indiziario in quanto riconducibili alla discendenza di Simone Massenza II.

[5] Giovanni Battista Hochenhauser di Merano tra il 1650 e 1660 figura come acquirente di alcuni terreni a Dermulo. Nei tre atti di compravendita in parola, il religioso risultava già in possesso di beni confinanti a quello acquistato. La sua presenza in valle è documentata nel 1639 come cappellano a Sanzeno e, venti anni più tardi, come beneficiato a Sfruz. Altro per ora non possiamo aggiungere.

[6] La prova che il notaio Barbacovi, già nel 1681, era proprietario della casa, ci viene fornita da un altro documento nel quale il notaio compariva confinante con il broilo di Concio Massenza, notoriamente collocato nelle vicinanze della futura casa n.13-14. Non solo, la casa nei primi anni del Settecento era riconosciuta appartenere ad Anna Barbacovi figlia di Udalrico e moglie di Giacomo Antonio Mendini.              

[7] La stessa designazione a volte era utilizzata per distinguere la casa n. 20-21 da quella detta "Casa dei Mendini di Sotto" cioè la n.22. Ciò potrebbe far sorgere qualche dubbio sull’identità della casa, tuttavia, dal confronto delle confinazioni in diversi documenti, è emerso in modo inequivocabile che si trattava di una parte a nord della casa 13-14, alla quale era pertinente anche una casetta diroccata poi conglobata nella casa n. 28. Essa assieme agli orti adiacenti fu oggetto in almeno tre occasioni di assicurazione in altrettante compravendite. La casa diroccata (murozia) in quegli anni si presentava isolata e circondata sui quattro lati da terreni.

[8] Naturalmente la suddivisione non era così semplice, c'erano parti in comune, locali disposti in altre porzioni, in generale quindi il possesso di un blocco di abitazione dalle fondamenta al tetto era solo teorico.

[9] Nella zona, nei documenti posteriori al 1750 non appare tra proprietari e confinanti nessuna persona estranea ai discendenti di Giovanni Battista II, per cui la futura casa 28 (non con le dimensioni odierne) apparteneva giocoforza a loro. E’ plausibile che Antonio Inama avesse inglobato nello stabbio da lui costruito, il sedime della casa detta del Mafuola, che fu degli eredi di Giacomo Antonio Mendini, appartenuto da ultimo alla comunità di Dermulo e infine acquistato da Giovanni Battista Inama II, padre di Antonio nel 1748.

[10] Probabilmente si trattava di Romedio Endrizzi, in quanto Antonio Endrizzi non trova riscontri in questa casa.

[11] In realtà nel 1885 risulta un contratto di vendita di tutta la sostanza da parte di Francesco Endrizzi e della moglie Costanza Rosetti, questa in rappresentanza del suocero Romedio, a Costante figlio di Costante Sarcletti di Casez. La compravendita, il cui contenuto riporto qui di seguito, per qualche motivo non si perfezionò.
Sanzeno 15.12.1885. Costante di Costante Sarcletti di Casez compera da Francesco e Romedio Endrizzi, quest’ultimo rappresentato da Costanza moglie di Francesco i seguenti beni: Casa rustica al n. 14 cui 1 Camillo Inama 2 Giovanni Endrizzi, 3 Giuseppe Mendini, 4 Tobia Mendini. Arativo aderente alla suddetta casa cui 1 strada comunale, 2 Giuseppe Mendini, 3 Pietro Inama 4 strada erariale. Vignale detto alle Oltoline (Voltoline) cui 1 Widmann, 2 Pietro Mascotti, 3 Domenico Inama di Taio, 4 Giacomo Endrizzi Arativo e prativo stesse pertinenze l. detto Tomellin cui 1 strada comunale, 2 Giacomo Inama, 3 Pietro Inama, 4 Strada erariale. (Era il Raut ereditato dalle Tomelline) Beni mobili: Una macchina da calzolaio usata in buono stato, 3 letti di piuma,(2 grandi, 1 piccolo), 3 capezzali e 6 guaciali usati, 18 lenzuoli di canape e lino, 4 pagliarizzi da letto a colori usati, 5 foderette biache usate, 2 lettiere (1 a lustro e 1 colorata), una tavola e un tavolino, 10 sedie di legno foglia usate, 3 scani uno di paglia e 2 solidi usati, 9 cornici di santi, 10 quadri, 14 quadri nuovi con cornici, 1 cassettino con guanciale, 2 armadi (1 colorito e 1 dalle farine), una credenza, 2 paioli di rame dal busato usati, 4 padelle grandi di ferro, 2 paioli piccioli (1 di rame e 1 di ferro) usati, 8 padelle di ottone,(2 grandi e 6 piccole) tutte usate, 2 celle di rame (1 grande e 1 piccola) tutte usate, 1 lavezo di ferro fuso usato, 8 cazze di ferro (4 forate e 4 liscie), 2 cazzottine d’ottone e una di ferro con busi, 6 secchie (5 di legno e una di banda) usate, 3 pallottine di ferro, 2 brente, un’orna, e una teza usate, un orologio vecchio, una cassa di noce antica, un cassabanco di ciliegio, 4 luminiere, una lanterna, 4 coperci di banda usati, una segosta di ferro, un masnino e brustolino dal caffè, 2 vasetti dal caffè e zucaro usati, 3 piatti neri, 3 piatti bianchi, 3 pignate grande e 2 piciole, una moja e una palotta dal fuoco, uno staio dal grano e un vallo, un caretto a due ruote usato, una banca della paglia usata, 3 mannaie di ferro vecchie, 2 fleri, una falce, 2 restrelli, 5 sarchi di ferro usati, una zappa, un picco di ferro usati, un badille, una vanga, 2 ranconi, 3 podarolli, un ferro per tagliare la paglia, un pallo di ferro, una anzi due banche per lavorare i manichi da frusta, un aspi e un vindol, una cesta di salice, due ? ovale? di legno, una ruota da filare, uno specchio, un crocifisso ed un acquasantello, 2 sopresse, 3 fiaschi grandi dall’acquavita, 4 fiaschi neri (3 da litro e 1 da ½ litro), e 3 da ¼ , 3 bicchieri e 2 sedicini da litro tutti usati. Tutti i beni sopracitati sono venduti per liberi e franchi a parte un’ipoteca a favore di Filippo Chilovi, del Comune di Dermulo e di Vittore Chistè. Il prezzo patuito fu di 650 Fiorini. In sconto di questi il compratore paga 157 Fiorini a Filippo Chilovi radicati sulla casa e arativo ivi aderente, 160 Fiorini Comune di Dermulo radicati sul vignale alle Voltoline e terreno al Tomelin e 50 Fiorini a Vittore Chistè radicato sul terreno alle Voltoline. Tutte queste accollazioni fanno un capitale di 367 Fiorini, i rimanenti 283 Fiorini vengono sborsati dal Sarcletti nelle mani dei venditori.

 

 

 

 

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Case  Mappa delle case Introduzione Foto della Casa n. 13-14 Schema della Casa n. 13-14